Vita di un astrofisica

Margherita Hack Una vita tra le stelleDi Renzo Editore, 2003pp. 138, euro 9,50 “A una parete è attaccata una cornice, ma il quadro è tutto bianco. Che cosa rappresenta quel quadro?, chiede un interlocutore. Una mucca che mangia l’erba, gli rispondono. Ma l’erba dov’è? L’ha mangiata la mucca. E la mucca dov’è? Eh, se n’è andata perché non c’era più erba”. Questa storia è un monito per gli astrofisici perché ricorda loro che i modelli non sono la realtà. E guai a confonderli: ogni ipotesi viene accettata solo perché “risponde alle domande in modo più convincente delle altre”. L’aneddoto citato a proposito degli interrogativi ancora aperti sul Big Bang lo racconta Margherita Hack a Fiorella Operto che la intervista nel libro ‘Una vita tra le stelle’, appena uscito per Di Renzo Editore. Non si tratta di una biografia, ma di flash che ripercorrono 50 anni di vita trascorsi negli osservatori astronomici europei e americani. Nel racconto, accanto ai ricordi della giovinezza e della formazione, si scoprono le grandi passioni della Hack, come lo sport (salto in lungo, salto in alto) e la politica (“divenni appassionatamente antifascista nel 1938”, a 16 anni) e le evoluzioni nel settore dell’astrofisica. Soprattutto quelle della tecnica: come l’avvento di telescopi e satelliti che hanno aperto le porte all’esplorazione dell’Universo. Il linguaggio è semplice e alla portata di tutti, più lontani dalle conoscenze comuni invece i concetti esposti, ma la Hack raccontando di neutrini, buchi neri, onde gravitazionali e sistema solare come se parlasse di suoi intimi amici, avvicina inevitabilmente anche il lettore meno alfabetizzato a questi temi. La storia della Margherita Hack astrofisica, a sentire il suo racconto, è frutto più del caso che di un destino coltivato con tenacia dalla più tenera età: studentessa meticolosa ma senza grandi slanci al liceo, si iscrive alla facoltà di lettere ma la abbandona in un’ora, “… mi iscrissi a fisica: mi trovai subito bene e cominciai a studiare con entusiasmo”. Da lì in poi – con una breve parentesi alla Ducati di Milano dove compilava le istruzioni per la Sogno, piccola macchina fotografia all’avanguardia per i tempi (il 1944) che rimaneva invenduta a causa della recessione economica – il resto della sua vita si svolge negli osservatori. Nel 1964 vince la cattedra all’Università di Trieste e da allora oltre all’insegnamento si dedica al recupero dell’Osservatorio astronomico che sorgeva in una villa patrizia ottocentesca vicino al castello di San Giusto e poco dopo verrà spostato in un terreno demaniale sul Carso, comprato “per poche lire”. Ed ecco un altro aneddoto: il terreno era al confine con la Jugoslavia (in quella che era chiamata la zona B) e “un telescopio poteva essere scambiato con un cannone puntato lungo la linea di confine”. Fatto sta che tra varie difficoltà non solo vennero montati gli strumenti e ampliate le strutture del centro ma in un decennio questo si guadagnò una fama di tutto rispetto anche in Europa e, nel 1974, un decennio dopo, ospitò il Congresso europeo dell’Unione astronomica internazionale. Passando in rassegna una storia di lavoro e ricerca, ma anche di riconoscimenti personali e conquiste, resta una domanda quasi obbligata. A cui nel libro la Hack non si sottrae: è stato un ostacolo essere una scienziata donna? Ecco la risposta a proposito del concorso (vinto) per la cattedra di astronomia all’Università triestina dove ancora oggi insegna: “avevo il triplo di pubblicazioni dei miei colleghi e molti riconoscimenti internazionali…. Forse i vecchi baroni erano più coscienziosi, o meno sfacciati, di certi nuovi baroni”.

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