Un motore per l’evoluzione

Lo sviluppo embrionale e l’evoluzione sono caratterizzati da significativi processi di aumento dell’organizzazione e della complessità. In questi campi, varie definizioni di auto-organizzazione si sono intersecate, sottolineando di volta in volta alcune caratteristiche proprie dei sistemi complessi e l’emergenza di nuove proprietà, i processi che portano alla creazione di ordine, la contrapposizione fra programma e vincoli strutturali. In biologia cellulare e dello sviluppo, conviene inoltre distinguere fra auto-assemblaggio (la genesi di una determinata struttura per combinazione fra le parti componenti, sulla base delle loro dimensione, geometria, forza di interazione) e auto-organizzazione, che implica la capacità di dare origine a strutture in condizioni molto differenti [1].

Esempi molto chiari di quest’ultimo fenomeno sono le uova regolative, quelle uova e quegli embrioni cioè, che tollerano manipolazioni importanti, con eliminazione o aggiunta di parti, ricostruendo il progetto completo di organismo. La fluttuazione nell’uso del concetto di auto-organizzazione è stata particolarmente evidente nell’embriologia sperimentale classica e nella sua contrapposizione con la genetica e la Nuova Sintesi evolutiva. Come hanno ben sintetizzato Gilbert e collaboratori [2 – 3], l’embriologia descrittiva e comparata dell’Ottocento e poi l’embriologia sperimentale nei primi tre decenni del Novecento avevano accumulato grandi successi, culminati nel Premio Nobel nel 1935 ad Hans Spemann, per i suoi studi sull’organizzatore primario e i processi di induzione nello sviluppo degli anfibi [4].

Tuttavia, negli anni Trenta, l’embriologia, pur alimentando molti studi accademici, perdeva il suo ruolo di ricerca di punta di fronte al trionfo della genetica e della Nuova Sintesi evolutiva, sotto gli attacchi di Thomas Hunt Morgan, che pur partiva da una formazione personale come embriologo. Secondo Morgan e i genetisti di popolazione dell’epoca, i grandi cambiamenti morfologici osservati durante la storia evolutiva erano dovuti all’accumularsi di piccole variazioni genetiche, dovute alle mutazioni. In altri termini, la macroevoluzione, la comparsa cioè dei grandi gruppi, quali per esempio i vertebrati o gli artropodi, sembrava riducibile agli stessi meccanismi di accumulo di piccoli cambiamenti graduali, che caratterizzano la formazione di nuove specie [5 – 6].Un bell’esempio di questo complesso dibattito è fornito dal campo morfogenetico, una teoria formulata tra il 1920 e il 1930, nel momento in cui l’embriologia sperimentale vedeva al centro dei suoi interessi la ricerca delle leggi dell’ordine della forma. Il campo morfogenetico è riferito in generale a un insieme di cellule le cui interazioni producono un determinato organo.

Il concetto di campo morfogenetico descriveva, senza spiegarle, le modalità di interazione fra cellule, usando ampiamente analogie con entità fisiche, quali i campi magnetici ed elettromagnetici, e terminologie della topologia. L’idea fu resa popolare dai lavori di Harrison [7] che dimostravano nella larva di tritone la presenza di due dischi, responsabili della formazione degli arti anteriori. Esperimenti empirici avevano dimostrato che i dischi davano origine sempre ad arti anteriori, anche dopo un trapianto. Dividendoli in due, ciascuna metà era in grado di produrre un arto intero. Inoltre, se in fase precoce si aggiungevano al disco dell’arto cellule di altre parti dell’embrione, queste si integravano e andavano a formare l’arto stesso. Il libro di Paul Weiss, Principles of Development [8] servì a definire il campo morfogenetico come un concetto centrale di tutta l’embriologia, descrivendolo sostanzialmente come un sistema altamente interattivo, di tipo “ecologico”, nel quale il destino delle cellule dipendeva da specifici segnali ambientali.

In queste teorie trovava poi spazio il concetto di gradiente morfogenetico, la presenza in concentrazioni diverse, nelle varie parti del campo, di sostanze “morfogene”, capaci di informare le cellule della loro posizione relativa. Esempio classico era il processo di rigenerazione della planaria: se si taglia a metà questo verme, i due tronconi rigenerano ciascuno la corretta parte mancante, come se le cellule deputate a rigenerarle, sapessero di avere una testa a cui aggiungere le parti caudali e viceversa. Dopo essere stato uno dei punti di forza teorici dell’embriologia nella prima metà del Novecento, il concetto di campo morfogenetico andò incontro a una forte obsolescenza: era troppo astratto e non offriva strumenti adeguati per analizzare sperimentalmente i meccanismi molecolari sottostanti. Solo in anni recenti le conoscenze sui geni che regolano le prime fasi dello sviluppo e i processi del differenziamento hanno permesso di affrontare in modo nuovo l’argomento.

Questa “rivisitazione” si è avvalsa dei risultati delle ricerche sulla determinazione della polarità dell’embrione del moscerino della frutta (drosophila). Questi hanno dimostrato che le prime e fondamentali informazioni di posizione per l’embrione derivano da geni materni (come il gene bicoid), che con i loro prodotti formano dei gradienti di concentrazione in grado di ripartire le competenze territoriali delle cellule e innescare una complessa cascata di interazioni geniche e cellulari tese a definire le varie parti (testa, torace, addome, le porzioni terminali del corpo della larva). D’altra parte, lo studio dei geni omeotici, omologhi a quelli di drosophila, che controllano lo sviluppo normale dell’arto dei vertebrati terrestri è il migliore esempio di campo morfogenetico. Quelle che nel pensiero di Thomas Morgan erano due prospettive in totale alternativa, il campo morfogenetico e il gene come elemento unitario dell’ontogenesi, vengono così a trovare una sorta di conciliazione e il concetto di campo morfogenetico assume di nuovo una importante funzione euristica per comprendere la genesi e l’evoluzione della forma.

Molte contrapposizioni teoriche, che nel termine di auto-organizzazione vedevano una efficace confutazione dei determinismi biologici, sono ora rientrate con i successi recenti della genetica dello sviluppo [9] (vedi anche E. Boncinelli, “Dalla cellula all’organismo” in Sapere, febbraio 2000, NdR). Un caso particolarmente interessante di processo di auto-organizzazione, al confine fra ontogenesi e filogenesi, è dato dai processi di sviluppo dell’encefalo, dove di recente sono state riprese le teorie di Conrad Waddington, per studiare lo sviluppo e l’evoluzione del sistema nervoso centrale dei vertebrati [10]. Il campo di ricerca recente della Evo-Devo, che vuol legare lo sviluppo embrionale alla teoria evolutiva, ha innescato interessanti riflessioni sull’auto-organizzazione in termini di organismo e di storia di vita.

Per esempio, nei fenomeni di eterocronia, lo spostamento temporale nella comparsa e nello sviluppo di un organo rispetto a un altro, che hanno portato alla definizione di nuovi grandi gruppi tassonomici. In tutti i casi citati, la capacità di auto-organizzazione dimostra proprietà elevate di “robustezza”, (capacità di raggiungere il risultato, nonostante le perturbazioni durante il processo) associata a flessibilità dei programmi di sviluppo [1] e permette di formulare il concetto di “capacità di evolvere” (evolvability). Questi apporti hanno l’ambizione di completare l’opera di Darwin, cercando di spiegare come la variazione fenotipica e l’adattamento biologico dipendano fortemente dei meccanismi dello sviluppo embrionale e del differenziamento cellulare.

Tali processi non sarebbero cioè un vincolo dell’evoluzione quanto piuttosto una sorta di potente motore combinatorio capace di amplificarne le potenzialità. E’ una impostazione che scandalizza molti darwiniani ortodossi, ma che riporta alla “tavola d’onore” dell’evoluzione l’embriologia e la biologia della cellula.La ricerca di un algoritmo che connetta il fenotipo al genotipo trasforma l’aforisma di Theodosious Dobzhansky “Nulla nella biologia ha senso eccetto che alla luce dell’evoluzione”, in “Nulla nell’evoluzione ha senso eccetto che alla luce della biologia cellulare”. Viene così elaborata una teoria della “capacità di evolvere” dei viventi che spiega come la robustezza e la flessibilità dei processi biologici durante lo sviluppo embrionale e nella fisiologia adulta forniscano una capacità di evolversi, riducendo i vincoli che impediscono la variazione. Si giunge così a rispolverare nell’era post-genomica, espressioni antiche, quali il “vitalismo”, per definire quelle proprietà fisiologiche che garantiscono la robustezza e la flessibilità dei processi biologici, senza dover dipendere esclusivamente dal determinismo genetico [11].

BIBLIOGRAFIA

[1] Gerhart J., Kirschner M.,. Cells , Embryos and Evolution, Blackwell Science, Malden Mass. 1997.
[2] Gilbert S.F.,. Biologia dello Sviluppo, IV ed., trad. it. Zanichelli, Bologna 1996.
[3] Gilbert S.F., Opitz J. M., Raff R.A., Resynthesizing Evolutionary Biology and Developmental Biology, Dev. Biol.,173: 357-372, 1996.
[4] Spemann H., Embryonic Development and Induction, Yale University Press, New Haven, 1938.
[5] Morgan T. H.,. The Rise of Genetics, Science, 76: 261-288, 1932.
[6] Morgan T. H.,. Embryology and Genetics, Columbia University Press, New York 1934.
[7] Harrison R. G., Experiments on the development of the forelimb of Amblystoma, a self-differentiating equipotential system, J. Exp. Zool. , 25: 413-461, 19188
[8]Weiss P., Principles of Development, Holt, New York1939.
[9] Boncinelli E., Biologia dello sviluppo. Carocci, Roma 2001.
[10] Waddington C.,Principles of Embriology, Allen and Unwin, London 1956.
[11] Kirschner M., Gerhart J., Molecular “vitalism”, Cell, 100: 79-88, 2000.Dossier, novembre 2002 © Galileo

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