Haven ed Exxon Valdez, catastrofi gemelle ma destini diversi

Exxon-Valdez e Haven: due super-petroliere colate a picco tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90. Una sulle coste dell’Alaska, negli Stati Uniti, l’altra nel mar Ligure. I loro nomi evocano distese di mare ricoperto di petrolio, animali incatramati e agonizzanti, spiagge inondate di una marea nera e vischiosa che soffoca la vita.

Exxon Waldezz e Haven, disastri uguali ma risarcimenti diversi

Catastrofi gemelle, in un certo senso, ma dai destini diversi: negli Stati Uniti, la Exxon ha pagato a titolo di risarcimento 7700 miliardi di lire, la metà dei quali per i danni ambientali. Da noi, invece, nel complesso si sono ottenuti meno di 200 miliardi, di cui solo un’ottantina destinati all’ambiente. Non basta: nel marzo del 1999 ad Anchorage si è potuto fare il bilancio di dieci anni di studi e di tentativi di bonifica [qui il report finale rilasciato nel 2011]. Il tutto durante una conferenza promossa dalla University of Alaska e dalla Exxon-Valdez Oil Spill Trustee Council, la fondazione che gestisce i soldi del risarcimento per i danni ambientali. In Italia, a ben otto anni dall’affondamento della Haven, si è iniziato a discutere come impiegare i soldi del risarcimento e dell’opportunità di rimuovere il catrame che giace in enormi blocchi sul fondo del mare.

Qualche settimana [1999] fa lo stato italiano, titolare del diritto al risarcimento ambientale, ha raggiunto un accordo extragiudiziale con l’Oil Pollution Compensation Fund (Opcf), il fondo assicurativo istituito a Bruxelles nel 1969 cui aderiscono tutti i paesi, a esclusione degli Stati Uniti, che hanno una movimentazione di prodotti petroliferi sopra i 150 milioni di tonnellate annue. La firma ufficiale verrà apposta a Genova il prossimo 14 aprile, anniversario del disastro. Per il governo italiano ciò significa l’archiviazione di una faccenda piuttosto spinosa. Ma per le associazioni ambientaliste non c’è molto da essere soddisfatti: la somma ottenuta sarebbe inadeguata, con l’aggravante di non contemplare, in contrasto con la nostra legislazione, il danno ambientale. Sotto accusa è l’atteggiamento troppo remissivo del governo nei confronti dell’Opcf. Sin dall’inizio il fondo ha sostenuto che per il caso Haven il risarcimento massimo poteva essere di 103 miliardi. Ma questa cifra, secondo gli ambientalisti, non sarebbe stata per nulla scontata. All’epoca dell’incidente, infatti, l’Italia non aveva ancora ratificato un emendamento del 1976 che riduceva a un settimo il massimale erogato dal fondo. Così da 770 miliardi si è passati a 103, che con gli interessi arrivano 117 e 600 milioni.

Il conto? Lo decidono i petrolieri

Ma l’Italia, che tra l’altro è il secondo contribuente del fondo dopo il Giappone, avrebbe forse potuto impegnarsi di più per far valere le proprie ragioni. “E invece, hanno prevalso gli interessi industriali e diplomatici su quelli dell’ambiente”, dice Stefano Lenzi del Wwf Italia. “D’altro canto”, aggiunge l’ambientalista, “le somme versate al fondo provengono dai petrolieri e questi, di fatto, esercitano enormi pressioni sulla loro gestione”. Basti pensare che dopo l’emendamento del 1976, ne è passato un altro che in pratica esclude la risarcibilità del danno ambientale. Di parere opposto, invece, il nostro governo. Il sottosegretario all’Ambiente Valerio Calzolaio, che ha seguito le fasi conclusive della vicenda, è convinto che non si potesse ottenere di più: “Quando il governo Prodi ha iniziato a occuparsi del caso Haven, si è voluto verificare se il massimale dovesse essere quello indicato dall’Opcf. E per la verità, gli esperti ci prospettarono una sua possibile rivalutazione. Tuttavia, la trattativa era già avviata da sei anni e sollevare la questione significava mandare a monte tutto o allungare ancora di più i tempi”. Un bel rischio, certo. Ma che secondo gli ambientalisti valeva la pena correre.

Il via libera del Parlamento

A premere verso una rapida definizione dell’intera vicenda, c’era però anche un’altra complicata questione. Nel 1992 venne istituito un secondo fondo Opcf, in sostituzione del precedente, che l’Italia sta ratificando proprio in queste settimane dopo vari anni di attesa. Così, il passaggio italiano dal vecchio al nuovo fondo e il risarcimento per il disastro della Haven, si sono trovati intrecciati in un complesso balletto diplomatico. Risultato: per chiudere la vicenda il governo ha chiesto al Parlamento la legittimazione a proseguire le trattative sul caso Haven, “ottenendola quasi all’unanimità”, precisa Calzolaio. E ci si è accordati sui 117 miliardi. “Una cifra indubbiamente modesta”, ammette Calzolaio, “alla quale si deve però aggiungere una sessantina di miliardi versati dalle assicurazioni, in separata sede, ai comuni, agli enti locali e ai privati per i danni subiti”.

Le garanzie dell’Oil Pollution Act

Anche così, però, i circa 200 miliardi racimolati rimangono ben al di sotto della effettiva entità del danno, non solo in termini ambientali. Se poi, viste le affinità tra i due casi, si confrontano con i 7700 pagati dalla Exxon, si rimane perplessi: come è possibile una così macroscopica divergenza? Il fatto è che gli Stati Uniti sono un caso a parte. Non aderiscono all’Opcf ma hanno una propria legislazione, l’Oil Pollution Act, emanata nel’90 proprio in seguito dell’incidente della Edxxon-Valdez. Dalla nave, finita sugli scogli per responsabilità del comandante ubriaco, fuoriuscirono non meno di 50 mila tonnellate di greggio che, sospinte dai venti e dalle correnti, finirono per devastare circa duemila chilometri di costa. Una visione desolante che indignò l’opinione pubblica americana e portò un anno dopo all’emanazione dell’Opa. “Si tratta di una normativa molto severa”, spiega Lenzi, “che prevede precise garanzie. Al punto che le navi che non hanno i certificati finanziari per far fronte a un eventuale danno non possono entrare nelle acque territoriali americane”. Inoltre, è prevista una responsabilità estesa, che va dal comandante della nave all’armatore sino, addirittura, alle banche che coprono finanziariamente le operazioni.

Rivedere i patti con i petrolieri

In Italia, invece, la situazione è meno chiara. La legge riconosce il danno ambientale e la necessità di tutelare le risorse marine. Ma il fondo assicurativo Opcf nega quei principi. “E se il caso Haven ci deve insegnare qualcosa”, dice Lenzi, “è che la posizione del nostro paese all’interno dell’Ocpf deve essere rivista radicalmente”. L’occasione è a portata di mano, offerta proprio dall’entrata dell’Italia nel nuovo fondo del 1992. Al momento della ratifica il governo italiano si è infatti impegnato a chiedere la revisione dell’articolato che esclude il danno ambientale. Ma quali possibilità ci sono che la richiesta venga accettata? “In effetti”, risponde Calzolaio, “non credo che si riuscirà facilmente a farla passare. Sarà un impegno lungo e difficile. Ma è una battaglia che gli ambientalisti al governo, in Italia e all’estero, vogliono fare”.

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