Pelagos, un santuario solo sulla carta

santuario Pelagos

A dieci anni dalla nascita, il Santuario Pelagos (vedi Galileo) è rimasto un triangolo di mare disegnato sulle carte geografiche. Nessuna azione concreta è stata fatta per la tutela dei cetacei che numerosi solcano le acque tra la Francia, la Sardegna e l’Italia, l’unica area protetta a loro dedicata nel Mediterraneo aperto. Addirittura, nel 2009 il Segretariato Permanente del Santuario – che dal 2007 si dovrebbe occupare della gestione (Balene (poco) sicure ) – ha chiuso la sua sede a Genova e il segretario esecutivo Philippe Robert è tornato ad occuparsi delle aree marine protette francesi. Forse anche per questo qualcuno ha pensato di poter organizzare nelle acque del Santuario una gara motonautica, la “Primatist Trophy 2010”, prevista tra l’Elba e l’Argentario dal 27 al 30 luglio. Ci è voluto l’intervento in extremis del Ministero dell’Ambiente per far rispettare il divieto per questo genere di competizioni all’interno di Pelagos.

Un santuario abbandonato

La condizione di abbandono del Pelagos è stata denunciata lo scorso 22 luglio da Legambiente e dalla Regione Liguria in una conferenza stampa organizzata nella sede istituzionale del Santuario, riaperta per l’occasione. Alla ministra Prestigiacomo, politici e ambientalisti hanno chiesto di ripristinare l’organo incaricato della gestione, avviare misure di protezione dagli inquinanti acustici e chimici e aumentare la prevenzione per quegli incidenti che potrebbero contaminare l’ecosistema.
Frutto di un lungo e faticoso negoziato tra Francia, Principato di Monaco e Italia, il santuario Pelagos fu istituito finalmente nel 2001: circa 87.000 chilometri quadrati di mare particolarmente frequentati dai cetacei che vi soggiornano temporaneamente per partorire e allevare i piccoli (Le balene del Mar Ligure) o in modo permanente, e che hanno addirittura incrementato la loro presenza negli anni (Alla conta dei capodogli).

La pressione antropica

A trasformare questo paradiso naturale in un inferno è la presenza umana: inquinamento, pesca e, soprattutto, traffico navale. Secondo i dati dell’Istituto Thetis (Organizzazione non-profit per lo
studio e la tutela dell’ambiente marino)
, la mortalità di questi animali è in aumento e la causa principale sono le collisioni con le imbarcazioni, soprattutto quelle di grandi dimensioni che compiono lunghe tratte come le petroliere, i mercantili, traghetti e navi da crociera. Solo nell’area protetta del Santuario ne transitano quotidianamente oltre 200, e aumentano notevolmente nel periodo estivo in seguito al turismo. Ma anche le piccole barche che viaggiano ad alta velocità costituiscono un pericolo per i cetacei, soprattutto per le balenottere e i capodogli, che spesso finiscono dilaniati dalle eliche dei motori. Se non rimangono uccisi, nella maggior parte dei casi restano feriti gravemente, conservandone segni indelebili. L’ultimo incidente è avvenuto proprio il 22 luglio al largo della Corsica, nel cuore della riserva.

Ma il traffico navale crea anche altri problemi. Infatti, i cetacei si servono dell’udito per orientarsi, comunicare e cacciare. Sono in grado di emettere ultrasuoni e di percepire l’eco che producono
quando incontrano un ostacolo. Le frequenze utilizzate dai sonar delle navi interferiscono con quelle utilizzate dai cetacei, che quindi rischiano di perdere l’orientamento e finire fuori rotta (Spiaggiamenti: tante le cause possibili). Ancor più devastanti, i famigerati Lfas (Low frequency active sonar) impiegati dai militari (Quel sonar fa perdere la bussola), principali indiziati di numerosi decessi per spiaggiamenti (Uccisi da un sonar).

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