Alzheimer e diagnosi precoce, a che punto siamo?

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(Foto via Pixabay)

Mettere a punto un test rapido ed economico per diagnosticare precocemente l’Alzheimer. Questa, insieme alla ricerca di una cura efficace, è la sfida inseguita da anni dai ricercatori di mezzo mondo. Attualmente la malattia viene individuata quando il danneggiamento del cervello è già avvenuto, ma uno studio pubblicato recentemente su Alzheimer’s & Dementia suggerisce che in un futuro non troppo lontano la diagnosi potrebbe arrivare prima che i sintomi si manifestino. Con un semplice esame del sangue si potrà indagare se la beta-amiloide – proteina dalla cui aggregazione si formano le placche amiloidi, tipiche della malattia – si sta già accumulando nel cervello.

Sono 47 milioni i malati di Alzheimer nel mondo e secondo le previsioni, il numero potrebbe triplicare entro il 2050. Un’emergenza sanitaria che giustifica lo sforzo dei ricercatori per arrivare a una diagnosi precoce. Le cause e la progressione della malattia, infatti, non sono ad oggi ancora ben comprese, tuttavia uno dei principali fattori responsabili del danneggiamento del cervello – che inizia decenni prima che si sviluppi la sintomatologia caratteristica – è individuato nell’accumulo della proteina beta-amiloide. Prodotta ed eliminata continuamente dal cervello durante le normali attività quotidiane, questa proteina forma, in caso di anomalie, delle placche che intossicano neuroni. Un’altra causa – la principale secondo uno studio condotto presso il Georgetown University Medical Center – sarebbe il malfunzionamento della proteina tau, normalmente presente nei neuroni con il compito di stabilizzare la struttura della cellula e favorire l’espulsione di proteine potenzialmente tossiche.

Attualmente la malattia può essere diagnosticata con esattezza solo esaminando il tessuto cerebrale dopo la morte, mentre in vita ci si basa sui sintomi cognitivi presentati dal paziente e sull’esecuzione di esami come la PET – tomografia a emissione di positroni – e la puntura lombare.

Rilevare precocemente la presenza nel sangue della proteina beta-amiloide avrebbe quindi il vantaggio di essere un esame meno invasivo, meno costoso e più veloce. Una lotta contro il tempo, che permetterebbe di individuare i soggetti a rischio di sviluppare la malattia e limitare i danni al cervello intervenendo tempestivamente.

Nel 2014, alcuni ricercatori del Georgetown University Medical Center dichiaravano in uno studio pubblicato su Nature Medicine, di aver individuato un set di 10 composti lipidici la cui presenza nel sangue avrebbe segnalato con un’accuratezza del 90% la probabilità di sviluppare nei due o tre anni successivi la malattia o un’altra forma di demenza. Il test su sangue, semplice e poco costoso, si ipotizzava sarebbe potuto entrare in commercio nel giro di un paio di anni.

È la Washington University School of Medicine di St. Louis, con una ricerca pubblicata su Science Translational Medicine , ad aver compiuto nel 2016 un significativo passo avanti verso la diagnosi e il monitoraggio della malattia, grazie alla valutazione dei livelli delle proteine tau e beta-amiloide nel sangue dei pazienti con demenza di Alzheimer.

E oggi, nello studio di Alzheimer’s & Dementia, sono ancora una volta i ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis ad avere annunciato – in occasione della recente Alzheimer’s Association International Conference di Londra – la messa a punto di un nuovo test di screening che permetterebbe, grazie alla rilevazione nel sangue dei livelli della proteina beta-amiloide, di individuare precocemente i soggetti che hanno un elevato rischio di sviluppare la malattia. Queste persone infatti, anni prima che compaiano i sintomi, mostrano già un accumulo della proteina nel cervello e nel liquido cerebrospinale.

I ricercatori hanno esaminato nei campioni di sangue –20 per ogni persona prelevati nell’arco di 24 ore – di 41 persone di età superiore ai 60 anni, provenienti dal Knight Alzheimer’s Disease Research Center, i valori di tre sottotipi della proteina beta-amiloide (38, 40 e 42, che differiscono tra loro per la lunghezza). I risultati hanno mostrato che 18 persone erano positive alla beta-amiloide e presentavano segni di compromissione cognitiva (come confermato da PET e puntura lombare), mentre 23 non presentavano alcun accumulo di questa proteina nel cervello. Inoltre, è emerso nei soggetti con compromissione cerebrale, che i livelli di beta 42 erano più bassi del 10-15% rispetto a quelli di beta 40. Una differenza riconducibile, secondo i ricercatori, al fatto che le placche amiloidi sono costituite prevalentemente da beta 42, ragione per cui la proteina si depositerebbe prima nel cervello e nel liquido cerebrospinale e solo successivamente si sposterebbe nel flusso sanguigno.

Un test estremamente sensibile che, concludono i ricercatori, potrebbe costituire un importante passo avanti nell’individuare precocemente il rischio di sviluppare la malattia. E che potrebbe essere ancora più accurato se completato con un ulteriore esame in grado di individuare anche i livelli della proteina tau, altra responsabile della degenerazione neuronale.

Riferimento: Alzheimer’s & Dementia

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