Scenari climatici apocalittici come quelli di alcuni film – da “Snowpiercer” a “2022. I sopravvissuti” – potrebbero soltanto essere posticipati di qualche secolo. A mostrarlo, dati scientifici alla mano, è un gruppo di ricercatori dell’Università di Leeds. Gli scienziati hanno svolto una proiezione di come potrebbe apparire la Terra fra quasi 500 anni, nel 2500, se non agiamo oggi contro i cambiamenti climatici. I risultati, pubblicati su Global Change Biology, indicano la necessità di porre rimedio sia nel breve termine sia di pensare agli effetti nei secoli futuri, oltre il 2100.
Il lavoro si intitola “La ricerca e le azioni contro i cambiamenti climatici devono guardare oltre il 2100”, senza lasciare dubbi sul contenuto del testo: è necessario pensare al futuro, anche a quello lontano. Gli autori lo hanno fatto e hanno studiato come cambierà la Terra, fra 500 anni, a seconda delle misure che prendiamo oggi e che terremo nei prossimi decenni e secoli. In particolare hanno considerato tre scenari di contenimento delle emissioni di gas serra: un livello basso, medio e elevato di mitigazione di queste emissioni. Per analizzare cosa potrà succedere hanno utilizzato delle articolate simulazioni computazionali elaborate a partire da modelli accreditati e già ampiamente in uso.
Forti problemi appaiono nel caso di scenario di mitigazione bassa e media delle emissioni, se non rientreremo negli Accordi di Parigi (restare ben al di sotto di un aumento di 2°C). In questo caso, gli effetti proiettati nel 2500 sono ben visibili e disastrosi. La temperatura continuerebbe a crescere, nei secoli successivi, arrivando a +3,6 °C nel 2.200 e a +4,6 °C nel 2500. In queste condizioni la vegetazione e le aree più adatte alle coltivazioni potrebbero risultare molto ridotte e spostarsi verso i Poli, secondo gli autori. La straordinaria ricchezza, in termini di biodiversità dell’Amazzonia, per cui la foresta è famosa, sarebbe persa. E il bacino amazzonico diventerebbe una vasta area sterile.
Un aumento così forte della temperatura causa danni diretti sulla salute delle persone, con una mortalità elevata nelle zone più esposte. Gli scienziati utilizzano un parametro per valutare la nostra resistenza al calore. Quando la cosiddetta temperatura di bulbo umido supera i 35 °C per più di 6 ore, allora siamo veramente a rischio. Si tratta della temperatura più bassa che si può ottenere facendo evaporare l’acqua nell’aria a pressione costante. Questo parametro fornisce informazioni sulla temperatura e l’umidità di una certa zona. Secondo la simulazione, nel 2500 vaste aree terrestri potrebbero essere a rischio di forte stress dovuto al calore per oltre la metà dell’anno. Questo grado di calore potrebbe essere fatale per la popolazione delle regioni tropicali. Mentre oggi queste regioni sperimentano questo livello di stress per per un periodo che va dallo 0 al 25% della durata dell’anno. Questo calore non fa male solo a noi, ma anche alle infrastrutture, ad esempio alla rete elettrica e ai trasporti, senza dimenticare ovviamente l’agricoltura.
La popolazione delle regioni tropicali potrebbe essere decimata. E anche nello scenario migliore, di alta mitigazione del riscaldamento, queste aree potrebbero comunque sperimentare più rischi. Il livello del mare, infatti, continuerebbe a salire, a causa dell’espansione delle acque e del loro rimescolamento negli oceani in fase di riscaldamento. L’impatto degli effetti che registriamo oggi, dunque, potrebbe in qualche caso durare a lungo termine con conseguenze negative, anche se agiamo al meglio per contrastarli. Questo ovviamente implica non che sia inutile prendere le misure più alte, anzi al contrario, che quanto prima le prendiamo e più Terra risparmiamo.
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I risultati puntano l’attenzione su un altro aspetto: l’importanza di andare oltre l’orizzonte temporale di questo secolo, un’analisi spesso assente o tralasciata dalle ricerche. Fermo restando che il margine di incertezza può essere comunque elevato, è necessario avere più modelli che indichino cosa succederà nel lungo termine a fronte di quello che facciamo oggi.
Riferimenti: Global Change Biology
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