Categorie: Ambiente

Artico, una discarica nucleare

Il paesaggio è silenzioso, come se nulla dovesse accadere. Ma una minaccia c’è, e viene dai fondali. Perché le acque dell’Mar glaciale artico, ormai, sono un enorme deposito di scorie radioattive. Infatti, nella zona sono stati scaricati, prima dalla ex Unione Sovietica e in seguito dalla Russia, 12 mila container pieni di materiale a media e bassa radioattività e 70 vecchi sommergibili nucleari. Una vera bomba a orologeria che potrebbe provocare un disastro ecologico dieci volte peggiore di quello di Chernobyl. A ribadire il pericolo è un’indagine dell’Enea, l’Ente per le nuove tecnologie l’energia e l’ambiente, che insieme a organizzazioni di altri dieci paesi europei ha preso parte al programma “Armara” (Arctic Marine Radioecology), finanziato dall’Unione europea. Il disastro, secondo i dati raccolti, potrebbe verificarsi verso la metà del prossimo secolo. Galileo ha intervistato Carlo Papucci, uno dei ricercatori dell’Enea che ha preso parte alla spedizione nei mari del nord.

Dottor Papucci, dobbiamo davvero aspettarci un’altra Chernobyl?

“Per adesso non ci sono pericoli immediati. Perché i materiali depositati nei fondali sono ancora chiusi nei loro contenitori metallici. Il problema è l’acqua marina, che con il tempo inevitabilmente corroderà questi involucri, probabilmente entro 50 anni circa. Quindi, se non si interviene, per il futuro dobbiamo aspettarci un rilascio massimo di radioattività. Quella che lasciamo ai nostri figli è una eredità pesante”.

Mancano decenni, quindi, all’ora X. Abbiamo tutto il tempo di correre ai ripari…

“Infatti. Ci sono due possibilità di intervento per limitare il rischio di una contaminazione. La prima è di incapsulare i contenitori nucleari nel cemento o in un altro materiale inerte, creando così un ulteriore effetto barriera.

L’altra è il recupero dei contenitori dai fondali, la loro inertizzazione e lo smantellamento dei sommergibili. Entrambi gli interventi sono costosi, ma qualcuno deve decidersi ad agire al più presto. Il problema vero è: chi finanzierà le operazioni? Si tratta, infatti, di acque territoriali Russe. L’Europa insieme agli altri organismi internazionali può dare solo delle sollecitazioni, ma la decisione finale spetta alla Russia”.

In attesa che qualcuno intervenga, non sarebbe necessario tenere la zona sotto sorveglianza?

“Certo. Localmente, infatti, si potrebbero già avere dei problemi. L’uscita di radioattività dai contenitori potrebbe, per esempio, minacciare le popolazioni che risiedono intorno alle zone contaminate. Soprattutto le penisole vicine al mare di Kola o al mare di Kara, dove gli abitanti si nutrono del pesce pescato nella zona incriminata. E a rischio sono anche i militari addetti alla sorveglianza delle coste. Ma la radioattività costituirebbe un pericolo anche per le popolazioni di foche, orsi e uccelli marini: anche la loro dieta infatti si basa sul pesce ”.

E cosa rischiano i paesi che, come il nostro, sono lontani dall’Artico?

“La contaminazione radioattiva più immediata è quella che passa attraverso la catena alimentare. L’Artico è sfruttato soprattutto per la pesca. E molti di noi mangiano il merluzzo che arriva proprio da quelle acque. Attualmente il livello di contaminazione radioattiva nei pesci di quelle zone è basso. Per esempio, il cesio 137, uno dei elementi più inquinanti in seguito all’incidente di Chernobyl, è presente nel mare di Barents alla concentrazione di 1 Bequerel al chilogrammo. Molto al di sotto del limite fissato a livello comunitario di 600 Bq/Kg”.

Che altri dati avete raccolto?

“Oltre alla valutazione del pericolo-radioattività, che è il dato che fa più effetto sulla popolazione, abbiamo studiato anche i processi oceanografici responsabili della dispersione e del trasporto della radioattività: come si distribuisce nel mare, in che misura si associa alle particelle presenti in acqua, come si depositano queste particelle, con che frequenza e ritmo. Sono studi che portiamo avanti già da qualche anno, infatti l’Enea ha organizzato tre campagne: nell’estate del 1996, del 1997 e nel marzo del 1998. La prossima spedizione è prevista per settembre, e speriamo tutti di ottenere risultati più rassicuranti”.

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