I progetti ambiziosi non sempre riescono bene, soprattutto quando si propongono di esplorare complessità biologiche molto estese nel tempo. Questo sembra il caso della “Lunga storia di noi stessi” scritta da Joseph Le Doux, neurobiologo che insegna al Center for Neural Science and Psychology della New York University, in un volume che inizia dalla lontana e incerta origine della vita e giunge ad analizzare i modi in cui il nostro cervello è attualmente capace di elaborare le emozioni e raggiungere consapevolezza autonoetica.
Di solito, le competenze disciplinari si rivolgono ad aspetti molto definiti del loro settore di studio ed il collegamento tra questi richiede capacità di spiegazione, linguaggi appropriati e una visione generale non facile da esplicitare. Probabilmente perché il compito è arduo, nella prima parte di questo volume che riguarda l’evoluzione dalle forme biochimiche primordiali fino alla multicellularità e all’organizzazione di viventi complessi, Le Doux si concede errori (forse di traduzione?) piuttosto rilevanti ed approssimazioni divulgative poco convincenti. Cosa penserebbe uno scolaretto di scuola media davanti a un esperimento in cui “se si versa un po’ di sale in un bicchier d’acqua, si dissolve facilmente: le molecole di ossigeno e di idrogeno dell’acqua attirano rispettivamente il sodio e il cloro smontando la molecola di sale”? Quando l’autore arriva finalmente al suo settore di competenza il discorso diventa meglio documentato ma certamente più difficile, e l’abbondanza di nomenclature tecniche sembra più adatta a superare un esame universitario che a spiegare ad un pubblico di lettori sia pure volenterosi il significato – ad esempio – della superconvergenza dell’elaborazione sensoriale nella corteccia prefrontale. D’altra parte, nei testi di divulgazione gli aspetti linguistici sono particolarmente rilevanti: quanto bisogna essere precisi? Quanto bisogna sedurre il lettore con frasi ammiccanti tentando di spingerlo ad andare avanti? Cosa pensa o cosa immagina un lettore inesperto davanti a un titolo di capitolo come: ”…e gli animali inventarono i neuroni”? Devono prenderlo sul serio? E se non lo prendono sul serio, come possono capire che dietro queste parole si nascondono processi biologici durati miliardi di anni dalla loro origine, l’efficace crudeltà della selezione naturale, l’inevitabilità della chimica, le trasformazioni ambientali, in altre parole la lentissima e non finalizzata storia dell’evoluzione?
Il linguaggio della divulgazione è per tradizione intriso di finalismo, ed anche documentari in TV ci raccontano di pesci esploratori che conquistarono gli ambienti terrestri provvedendo poi a farsi spuntare opportuni arti di sostegno. Certo è molto più accattivante pensare ad un incessante progresso, dalle molecole all’uomo – come diceva un famoso libro di scienze. Ma è questo che vogliamo suggerire (con allusioni variamente spiritose) ai lettori di un testo di Scienza e Idee? La problematicità, le ambiguità, le delusioni della ricerca scientifica certo non traspaiono dagli articoli “professionali” dove gli autori espongono i loro dati, ma per un lettore qualunque sarebbe importante capire come i vari risultati si compongano poi in modelli di pensiero spesso fragili, ancora contraddittori, in interpretazioni tutt’altro che definitive, togliendo alla scienza una parte di quella tracotanza che invita i no-vax o i no-science a diffidare sempre e comunque di qualunque informazione.
L’autore cita numerosi studi e ricerche, riportati nella lunga bibliografia on line, che indagano le possibilità di localizzare nelle diverse aree del cervello alcune caratteristiche del pensare umano. La cognizione è considerata un prodotto di processi biologici resi possibili da un sistema nervoso complesso ed evoluti soltanto in alcune specie animali. Memoria, associazione tra sensazioni e comportamento risultante possono essere misurate con test pavloviani fondati sulla associazione stimolo-risposta; e i meccanismi molecolari, i geni che ne sono alla base, sono conservati anche in vermi, molluschi, insetti. Esiste però una forma più evoluta di condizionamento, detta strumentale, che porta gli animali ad usare rappresentazioni interne per rispondere in modo flessibile alle diverse condizioni ambientali: questi comportamenti caratterizzano animali con cervelli più sviluppati, e sono presenti soltanto nei mammiferi e in alcune specie di uccelli. Infine, i processi cognitivi deliberativi sono caratteristici degli umani, che sanno fare predizioni deliberative su possibili stati futuri del mondo. Il linguaggio umano permette di strutturare i processi mentali e ne guida il funzionamento, rendendo via via più dinamico e raffinato il pensiero. Come dice Dennet, il linguaggio non è necessario per la cognizione ma la cognizione senza linguaggio non è la stessa cosa di quella con il linguaggio.
Le ricerche sulle basi neurali della cognizione hanno individuato nel cervello circuiti per le diverse funzioni, distinti ma integrati, in modo da creare dei loop di elaborazione che costruiscono e modificano le rappresentazioni sensoriali. L’autore descrive così le funzioni dei diversi tipi di corteccia cerebrale individuando quelle coinvolte nella elaborazione cognitiva, nel ragionamento e nella risoluzione di problemi. Piccoli disegni illustrano le localizzazione delle diverse zone, con i loro nomi specifici: ”Le varie aree del lobo temporale mesiale sono fortemente connesse con la corteccia prefrontale mesiale: la corteccia peririnale della via semantica è collegata alla corteccia orbitofrontale, l’area ippocampale della via episodica si collega alla corteccia del cingolo anteriore e l’ippocampo all’area ventromesiale”; descrizioni così dettagliate aiutano un aspirante neurologo a sapere dove avvengono determinati processi, ma al lettore inesperto resta ancora molto da capire sul loro significato, cioè su come queste connessioni si traducano nell’esperienza quotidiana di memoria, di pensiero, di comportamento. Molte sono le ipotesi che devono essere verificate, molta raffinata tecnologia è ancora necessaria per indagare sperimentalmente, negli animali e nell’essere umano, le modalità della formazione del pensiero.
L’ultima parte del libro, la XV, riguarda la soggettività delle emozioni che rappresentano un elemento essenziale per la coscienza del sé. Le situazioni biologicamente significative sono associate all’attività dei circuiti difensivi di sopravvivenza, mentre quelle psicologicamente significative non sono connesse a tali circuiti. Reagire ai pericoli è essenziale e quindi emozioni come la paura generano risposte fisiologiche e risposte comportamentali adeguate alle situazioni. Anche in queste spiegazioni, l’uso di parole dalla definizione ambigua e non sempre condivisa neppure dagli esperti del mestiere (sensazioni, sentimenti, emozioni, esperienza cosciente, coscienza noetica…) non facilita la lettura e, nell’acquisizione della coscienza – dice l’autore – “senza che il sé sia parte di una esperienza, l’esperienza non è una esperienza emotiva”. Si considera quindi il valore biologico delle emozioni, con la difficoltà di distinguere una consapevolezza noetica da una consapevolezza autonoetica, necessaria per personalizzare ogni tipo di rischio e tentare di evitarlo. La specie umana, che ha acquisito questa possibilità, si caratterizza quindi attraverso le capacità di pianificare un futuro immaginato o eventualmente più futuri alternativi, di conquistare nuovi orizzonti e di cambiare il mondo. A loro volta – conclude LeDoux – gli scienziati perfezioneranno le loro conoscenze elaborando “una teoria generale che collocherà all’interno di un unico quadro sia gli stati coscienti emotivi sia quelli non emotivi”.
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