Con la forza del pensiero

Per quanto la stessa rivista metta le mani avanti, ricordando che per ora si tratta di un esperimento isolato e difficilmente replicabile, lo studio a cui Nature dedica la copertina di questa settimana è una pietra miliare per la medicina e per lo studio del sistema nervoso. Un gruppo guidato da John Donoghue della Brown University del Rhode Island ha impiantato una serie di elettrodi nel cervello di un uomo paralizzato, e in questo modo gli ha permesso di controllare, letteralmente attraverso il pensiero, semplici dispositivi come il mouse di un computer. Il paziente in questione, di 25 anni, era rimasto paralizzato tre anni fa a causa di una lesione del midollo spinale causata da una pugnalata, che lo ha privato della capacità di muovere gli arti. Tuttavia, l’attività cerebrale nella zona della corteccia motoria (la parte che controlla il movimento) appariva normale. Quando al paziente veniva chiesto di provare a muovere un braccio, l’attività dei suoi neuroni era cioè paragonabile a quella osservata in un soggetto sano effettivamente in grado di muovere il braccio. I medici hanno quindi impiantato una matrice di 100 elettrodi, posti su una piastra di 4 X 4 millimetri di silicio, sulla superficie della corteccia motoria. Un minuscolo cavo attraversa il cranio e la cute per portare i segnali elettrici raccolti dagli elettrodi fino a una batteria di amplificatori esterni, e da qui a una serie di computer montati su un carrello, che elaborano il segnale. Con questo dispositivo, il paziente è in grado di muovere il puntatore sullo schermo di un computer, come se stesse usando un mouse, semplicemente pensando di muovere la mano per compiere la stessa azione. Dopo una fase di calibrazione e apprendimento di appena qualche minuto, il paziente era in grado di eseguire operazioni come aprire messaggi di posta elettronica e giocare ad alcuni semplici videogames. Non solo: accoppiando il “cursore neurale” a un semplice dispositivo, il paziente è riuscito a regolare il volume e a cambiare canale su una televisione, e a controllare, anche se molto limitatamente, ad aprire e chiudere una mano meccanica. IAnche se non si tratta tecnicamente della prima esperienza riuscita di impianto di protesi neuromotorie sul sistema nervoso centrale, nessuno aveva mai ottenuto risultati così incoraggianti. Una notizia quindi importantissima per quelle centinaia di migliaia di persone al mondo che soffrono di paralisi a vari livelli per lesioni del midollo spinale. Mentre i vari tentativi di indurre la rigenerazione delle cellule di quest’ultimo hanno dato sinora risultati molto deludenti, questa ricerca prova che le protesi di questo tipo sono un approccio percorribile per ridare al paziente almeno minime capacità di interazione con l’ambiente e di comunicazione. Certo, ci sono ancora molti problemi da superare prima che una tecnica così invasiva sia in grado di aiutare un gran numero di pazienti. Nessuno sa per quanto tempo possano funzionare gli elettrodi, e visto che i pazienti con lesioni del midollo spinale sono spesso giovani, il problema non è certo da poco: non si parla di un pace-maker da sostituire periodicamente. Inoltre la presenza di un fascio di cavi che attraversa la cute e il cranio espone ad altissimo rischio di infezioni. Per una vera applicazione clinica, sarebbe necessario usare un sistema di telemetria, cioè di trasmissione senza fili dagli elettrodi a un ricevitore esterno. Ma per farlo occorrerebbero sistemi di analisi e compressione dei dati in grado di ridurre al minimo la quantità di informazioni da trasmettere. Un aiuto in questo senso viene però da un altro studio, sempre pubblicato su Nature di questa settimana, in cui Gopal Santhanam e colleghi dell’Università di Stanford descrivono un algoritmo per interpretare l’attività neurale di scimmie ed estrarne intenzioni di azione, quindi un output in qualche modo utilizzabile da protesi neuromotorie. Basandosi sull’attività della corteccia premotoria, registrata mentre le scimmie afferravano oggetti posti attorno a loro, i ricercatori riuscivano a estrarre dall’attività neurale la corretta traiettoria dell’arto in 250 ms. Una prestazione che, tradotta in una protesi neuromotoria per esseri umani, consentirebbe per esempio di battera a macchina circa 15 parole al minuto. Insomma, tecnologie che fino a una decina di anni fa sembravano relegate alla più improbabile science-fiction (ricordate “L’uomo da sei milioni di dollari?”) stanno, anche se molto lentamente, diventando realtà. NEUROSCIENZECon la forza del pensiero di Nicola Nosengo Per quanto la stessa rivista metta le mani avanti, ricordando che per ora si tratta di un esperimento isolato e difficilmente replicabile, lo studio a cui Nature dedica la copertina di questa settimana è una pietra miliare per la medicina e per lo studio del sistema nervoso. Un gruppo guidato da John Donoghue della Brown University del Rhode Island ha impiantato una serie di elettrodi nel cervello di un uomo paralizzato, e in questo modo gli ha permesso di controllare, letteralmente attraverso il pensiero, semplici dispositivi come il mouse di un computer. Il paziente in questione, di 25 anni, era rimasto paralizzato tre anni fa a causa di una lesione del midollo spinale causata da una pugnalata, che lo ha privato della capacità di muovere gli arti. Tuttavia, l’attività cerebrale nella zona della corteccia motoria (la parte che controlla il movimento) appariva normale. Quando al paziente veniva chiesto di provare a muovere un braccio, l’attività dei suoi neuroni era cioè paragonabile a quella osservata in un soggetto sano effettivamente in grado di muovere il braccio. I medici hanno quindi impiantato una matrice di 100 elettrodi, posti su una piastra di 4 X 4 millimetri di silicio, sulla superficie della corteccia motoria. Un minuscolo cavo attraversa il cranio e la cute per portare i segnali elettrici raccolti dagli elettrodi fino a una batteria di amplificatori esterni, e da qui a una serie di computer montati su un carrello, che elaborano il segnale. Con questo dispositivo, il paziente è in grado di muovere il puntatore sullo schermo di un computer, come se stesse usando un mouse, semplicemente pensando di muovere la mano per compiere la stessa azione. Dopo una fase di calibrazione e apprendimento di appena qualche minuto, il paziente era in grado di eseguire operazioni come aprire messaggi di posta elettronica e giocare ad alcuni semplici videogames. Non solo: accoppiando il “cursore neurale” a un semplice dispositivo, il paziente è riuscito a regolare il volume e a cambiare canale su una televisione, e a controllare, anche se molto limitatamente, ad aprire e chiudere una mano meccanica. IAnche se non si tratta tecnicamente della prima esperienza riuscita di impianto di protesi neuromotorie sul sistema nervoso centrale, nessuno aveva mai ottenuto risultati così incoraggianti. Una notizia quindi importantissima per quelle centinaia di migliaia di persone al mondo che soffrono di paralisi a vari livelli per lesioni del midollo spinale. Mentre i vari tentativi di indurre la rigenerazione delle cellule di quest’ultimo hanno dato sinora risultati molto deludenti, questa ricerca prova che le protesi di questo tipo sono un approccio percorribile per ridare al paziente almeno minime capacità di interazione con l’ambiente e di comunicazione. Certo, ci sono ancora molti problemi da superare prima che una tecnica così invasiva sia in grado di aiutare un gran numero di pazienti. Nessuno sa per quanto tempo possano funzionare gli elettrodi, e visto che i pazienti con lesioni del midollo spinale sono spesso giovani, il problema non è certo da poco: non si parla di un pace-maker da sostituire periodicamente. Inoltre la presenza di un fascio di cavi che attraversa la cute e il cranio espone ad altissimo rischio di infezioni. Per una vera applicazione clinica, sarebbe necessario usare un sistema di telemetria, cioè di trasmissione senza fili dagli elettrodi a un ricevitore esterno. Ma per farlo occorrerebbero sistemi di analisi e compressione dei dati in grado di ridurre al minimo la quantità di informazioni da trasmettere. Un aiuto in questo senso viene però da un altro studio, sempre pubblicato su Nature di questa settimana, in cui Gopal Santhanam e colleghi dell’Università di Stanford descrivono un algoritmo per interpretare l’attività neurale di scimmie ed estrarne intenzioni di azione, quindi un output in qualche modo utilizzabile da protesi neuromotorie. Basandosi sull’attività della corteccia premotoria, registrata mentre le scimmie afferravano oggetti posti attorno a loro, i ricercatori riuscivano a estrarre dall’attività neurale la corretta traiettoria dell’arto in 250 ms. Una prestazione che, tradotta in una protesi neuromotoria per esseri umani, consentirebbe per esempio di battera a macchina circa 15 parole al minuto. Insomma, tecnologie che fino a una decina di anni fa sembravano relegate alla più improbabile science-fiction (ricordate “L’uomo da sei milioni di dollari?”) stanno, anche se molto lentamente, diventando realtà.

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