Covid-19, nuovi indizi di immunità, ma il patentino resta una chimera

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(Credits: NIAID - CC via Flickr)

L’aura di mistero che circonda Covid-19 inizia finalmente a diradarsi. È possibile diventare immuni alla malattia una volta guariti. O quanto meno, è finalmente certo che si sviluppano anticorpi specifici contro il virus. Un processo normale nel caso di quasi tutte le malattie infettive note, ma che non si poteva dare per scontato nel caso di un nemico così sfuggente. Il merito della scoperta va a un gruppo di ricerca cinese, che ha pubblicato su Nature Medicine i risultati di uno studio sierologico su 285 pazienti, in cui si dimostra per la prima volta che tutti i malati (almeno tra quelli analizzati dai ricercatori) sviluppano anticorpi, o più precisamente immunoglobuline specifiche, contro Sars-Cov-2 nel corso della malattia. Un raggio di luce, che riaccende le speranze almeno su due fronti: l’affidabilità dei test sierologici, e la possibilità di sviluppare immunità al virus (e quindi anche di poter realizzare un vaccino).

I ricercatori hanno reclutato i 285 pazienti in tre ospedali cinesi, sottoponendoli a test sierologici per cercare la presenza di anticorpi specifici prodotti in risposta all’infezione da Sars-Cov-2 utilizzando uno dei test sierologici disponibili, il kit Mclia sviluppato dall’azienda Bioscience Co. I test hanno rivelato che in tutti i malati sono state prodotte immunoglobuline G (o IgG) specifiche per il virus entro 17-19 giorni dalla comparsa dei sintomi della malattia, mentre per un altro gruppo di immunoglobuline, chiamate immunoglobuline M (o IgM), ci sono voluti 20-22 perché venissero prodotte dal numero massimo di pazienti, pari al 96,1% dei partecipanti allo studio.

Sigle a parte, come interpretare questi risultati? Per prima cosa, dimostrano che le analisi sierologiche possono aiutare a identificare i pazienti positivi al virus che sfuggono ai tamponi: i ricercatori hanno infatti sottoposto al test altre 52 persone con sintomi sospetti di Covid-19 risultate negative per almeno due volte ai test più diffusi che cercano la presenza di rna virale. Quattro di questi pazienti sono risultati positivi al test per gli anticorpi, e solo uno di loro è finalmente risultato positivo a un tampone seguente. Per tre pazienti quindi la malattia è risultata identificabile unicamente con la ricerca degli anticorpi specifici.

Proseguendo nella loro analisi, i ricercatori hanno testato anche altre 164 persone sospettate di aver contratto il virus a causa di un incontro ravvicinato con un paziente Covid. 16 di loro avevano avuto un tampone positivo, e in tutti questi anche i test sierologici hanno confermato la presenza dell’infezione. Altri setteerano risultati negativi al tampone, ma presentavano immunoglobuline per il virus. Un dato che conferma l’utilità dei test per gli anticorpi nella sorveglianza epidemiologica, e che potrebbe indicare che circa il 4,3% dei contatti con un malato (7 pazienti su 164 nello studio) non è identificabile con i test per la ricerca di rna virale, ma risulta positivo utilizzando i test sierologici per gli anticorpi.

Il secondo aspetto rilevante dello studio, forse anche più importante, è la conferma che il 100% dei pazienti sviluppa una risposta immunitaria nel corso della malattia. In particolare, tutti i pazienti studiati hanno sviluppato immunoglobuline G in seguito al contatto col virus. Un tipo di anticorpi che viene prodotto in una fase tardiva della risposta immunitaria, e che quindi solitamente viene utilizzato come elemento diagnostico per identificare le persone che hanno incontrato un virus nel corso di un’infezione ormai risolta, o che si trovano magari in fase asintomatica della malattia. Si tratta quindi di una conferma della possibilità di identificare i guariti con un test di laboratorio, fondamentale per confermare l’utilità di studi epidemiologici con cui verificare il numero reale di persone che hanno già contratto Covid (e quindi calcolare la reale letalità del virus), prevedere con più precisione la possibile evoluzione dell’epidemia, e perché no, pensare a qualcosa di simile a un patentino di immunità per la malattia.

In questo senso, la ricerca non è sufficiente per confermare che le persone che hanno incontrato il virus diventino realmente immuni a una seconda infezione. O tanto meno per capire quanto potrebbe durare questa immunità. Nel caso di virus simili a Sars-Cov-2, come Sars e Mers, i sopravvissuti ottengono un’immunità verso nuove infezioni che dura almeno 12-24 mesi. Lo stesso accade nei modelli animali di covid, ma anche questo non basta a confermare che i pazienti guariti dal nuovo coronavirus siano realmente immuni alla malattia. Con il nuovo studio si fa un passo ulteriore: avendo verificato la presenza in tutti i pazienti di immunoglobuline G le probabilità che sia possibile sviluppare immunità al virus crescono ulteriormente. Si tratta infatti di anticorpi prodotti prodotti nella fase più avanzata della risposta immunitaria ai patogeni, e solitamente sono collegati allo sviluppo di una protezione a lungo termine.

Per quanti indizi si accumulino, comunque, difficilmente si otterrà una prova fino a quando qualche ricerca non riuscirà a dimostrare direttamente che la presenza di anticorpi nel sangue è collegata all’immunità nei confronti di nuove infezioni. Non a caso, l’Oms negli scorsi giorni ha deciso di prendere posizione, con un rapporto in cui si sottolinea che l’adozione di patentini, passaporti o altre certificazioni di immunità verso covid è attualmente priva di basi scientifiche. I motivi citati dagli esperti dell’Organizzazione mondiale di sanità sono due. Per prima cosa, l’accuratezza dei test sierologici deve dimostrarsi estremamente alta prima di poter pensare di utilizzarli per decidere chi non rischia più di contrarre la malattia. I falsi positivi sono sempre in agguato, e in questo caso sono particolarmente probabili visto che di coronavirus umani ne esistono almeno sei, e in chi ha incontrato uno di questi virus in passato (eventualità comune visto che quattro coronavirus umani sono causa del normale raffreddore) ci sono alte possibilità che i test facciano confusione tra anticorpi per virus così simili tra loro (in inglese viene definita cross-reactivity).

La seconda ragione, chiaramente, è che mancano prove che dimostrino che ci possiede anticorpi contro covid sia realmente immune da nuove infezioni. Lo sviluppo di immunità nei confronti di un patogeno è un processo molto complesso, in cui entrano in gioco troppi fattori per poter inferire il risultato basandosi unicamente sullo sviluppo di anticorpi specifici nel corso di un’infezione. A peggiorare le cose, c’è il fatto che i coronavirus, come i virus influenzali, hanno la fastidiosa tendenza a sfuggire all’immunità adattativa, cioè la memoria immunologica che ci protegge da malattie come il morbillo e la varicella se le abbiamo incontrate in passato. È il motivo per cui il vaccino antinfluenzale deve essere riformulato e ripetuto ogni anno per risultare efficace. E visto che Sars-Cov-2 fa parte di questa tipologia di agenti patogeni, è impossibile dire se e quanto potrebbe durare l’immunità verso nuove infezioni. Esistono anche alcune segnalazioni di pazienti che hanno sviluppato nuovamente i sintomi di covid a settimane da un’iniziale guarigione. Indizio preoccupante, che a onor del vero si può spiegare forse più facilmente pensando a una riattivazione di un virus dormiente o riacutizzazione dei sintomi, piuttosto che alla completa impossibilità di sviluppare un’immunizzazione nei confronti di Sars-Cov-2.

Lasciato da parte il patentino d’immunità, che presenterebbe non pochi problemi anche e soprattutto dal punto di vista etico poiché (a prescindere dalle intenzioni di chi lo propone) rappresenterebbe inevitabilmente una forma di discriminazione, il vero tema caldo per quanto riguarda la possibilità di sviluppare immunità nei confronti di covid è quello dei vaccini. Perché se ne possa realizzare uno il nostro organismo deve ovviamente essere capace di immunizzarsi nei confronti del nuovo coronavirus. La speranza è che sia questo il caso. A quel punto bisognerà capire come produrre, distribuire e somministrare il vaccino a miliardi di persone in tutto il globo. Una sfida difficile da immaginare anche solo su scala nazionale, che (volenti o nolenti) dovremo capire come affrontare a tempo debito.

Via: Wired.it

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Credits immagine di copertina: NIAID – CC via Flickr

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