Marco Ferraguti, Carla Castellacci (a cura di)
Evoluzione. Modelli e processi
Pearson Italia 2011, pp. xvi+432, euro 36,00
Verso la fine dell’Ottocento, proprio quando cominciava quel periodo che Peter Bowler ha definito come il tempo dell’eclissi (temporanea) del Darwinismo, Giovanni Canestrini, professore di zoologia e anatomia comparata all’Università di Padova, teneva vivo nel nostro paese l’interesse per l’evoluzione biologica, sia traducendo in italiano le opere principali di Charles Darwin, sia pubblicando due opere originali che godettero di un discreto successo, sottolineato da riedizioni e ristampe. Si tratta de “La teoria dell’evoluzione esposta ne’ suoi fondamenti come introduzione alla lettura delle opere del Darwin e de’ suoi seguaci”, che uscì nel 1877, e de “La teoria di Darwin criticamente esposta”, la cui prima edizione è del 1880.
Un secolo più tardi, dall’incontro fra il modello interpretativo darwiniano e una mole ogni giorno crescente di studi che spaziano dalla genetica alla paleontologia, dalla biogeografia all’etologia, dall’anatomia all’embriologia, si è venuto a formare un settore disciplinare ben caratterizzato che, sotto il nome di biologia evoluzionistica, merita oggi un suo ben preciso spazio nell’insegnamento, nella manualistica, nella divulgazione.
Nel 1946 nasce in America la Society for the Study of Evolution, il cui primo consiglio direttivo vede George Gaylord Simpson come presidente ed Ernst Mayr come segretario, mentre Sewall Wright e Theodosius Dobzhansky figurano fra i consiglieri. Mica male, come inizio. In Italia, nel frattempo, di evoluzione si parla poco e non sempre con un linguaggio adatto ad una disciplina scientifica. Nei decenni successivi la situazione però migliora, nel nostro paese, che registra un’inattesa esplosione di attenzione per la biologia evoluzionistica attorno al 1982, cioè in corrispondenza del primo centenario della morte di Charles Darwin. Sempre più diffusamente, sia nell’ambiente accademico sia al di fuori di esso, parlare di evoluzione diventa meno problematico. L’Italia, tuttavia, stenta ancora ad assumere un ruolo significativo nel panorama internazionale della ricerca scientifica in materia di biologia evoluzionistica.
Una concreta speranza per un salto qualitativo e quantitativo del contributo italiano in questo campo prende vigore con la fondazione di una Società Europea di Biologia Evoluzionistica, che nasce nel 1987 a Basilea, in occasione di un congresso al quale partecipa un numero abbastanza significativo di ricercatori italiani. Due anni dopo, il secondo congresso di questa società si svolge proprio in Italia, a Roma, e vent’anni più tardi (2009) Torino ne ospiterà la dodicesima edizione. Buone occasioni, dunque, per la biologia evoluzionistica nostrana. Ma non bastano le buone occasioni, se non si trova chi è pronto ad approfittarne. All’incontro di Torino, gli italiani (esclusi i padroni di casa) non erano più del due per cento degli iscritti. Questa brutta medaglia ha un’altra faccia, tuttavia, che brilla molto di più. È la faccia della SIBE, la Società Italiana di Biologia Evoluzionistica, nata nel 2005, attorno alla quale si sono finalmente radunate molte giovani energie che davvero fanno sperare in un solido sviluppo degli studi evoluzionistici nel nostro paese.
Uno dei primi importanti frutti visibili di questo nuovo fervore di interessi è il volume curato da Marco Ferraguti e Carla Castellacci, che proprio all’ombra della SIBE hanno trovato gli otto validi collaboratori che hanno diviso con loro l’impegno per la realizzazione di Evoluzione. Modelli e processi. Finalmente, per la prima volta nella storia, abbiamo tra le mani un manuale italiano (non tradotto) di biologia evoluzionistica. Non è, questo, un libro italiano solo perché scritto da studiosi italiani. Lo è anche perché, dove possibile, i problemi discussi nei diversi capitoli sono illustrati con riferimenti presi da studi compiuti da ricercatori italiani.
Scrivendo il primo libro italiano di biologia evoluzionistica, gli autori si sono assunti, forse senza accorgersene, una grossa responsabilità sul piano della comunicazione. Molto più di quanto dovessero o potessero fare i traduttori delle opere straniere portate fino ad oggi sul nostro mercato librario, si sono trovati infatti nell’opportunità di compiere molte e non sempre facili scelte lessicali, che potranno avere ricadute non trascurabili sul linguaggio che sarà usato in Italia, nel prossimo futuro, quando si parlerà di evoluzione biologica, anche e soprattutto in ambito didattico e divulgativo. Le scelte compiute da Ferraguti e Castellacci e dai loro collaboratori non sono semplicemente disperse nelle oltre quattrocento pagine del libro, ma sono anche riassunte e codificate in un glossario di ben 380 voci. In alcuni casi, non si può non lodare una scelta controcorrente come l’uso di «insularismo» piuttosto che «insularità», oppure espressioni già in uso ma decisamente improprie, come «specie filogeneticamente correlate» in luogo di «specie strettamente imparentate». Pazienza. L’importante, si dice, è capirsi.
C’è però un argomento dove non me la sento proprio di accettare l’uso con cui alcuni termini sono stati usati, perché da un uso improprio dei termini discendono nozioni errate. È il caso di alcuni paragrafi relativi al metodo comparativo, quella parte della biologia che ha le sue radici nelle nozioni di omologia e di analogia, così come furono definite da Owen nel 1843, mettendo finalmente ordine ad una disciplina scientifica alla quale tanto aveva contribuito all’inizio del XIX secolo la grande anatomia comparata di Georges Cuvier e di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, che usavano però una terminologia che rende oggi insidiosa una lettura non sufficientemente avvertita dei loro testi. Quanto è avvenuto dopo Owen, in questo campo, non è rappresentato solo da un’interpretazione storica delle omologie e delle analogie, resa possibile (e necessaria) dall’avvento dell’evoluzionismo. Di là da questo, il metodo comparativo in biologia ha attraversato quella che possiamo chiamare la rivoluzione cladistica, che ha introdotto nuovi concetti e nuovi termini che solo in parte si possono confrontare con quelli della precedente tradizione, ma in alcuni casi rappresentano invece nozioni completamente nuove. Così, se – in buona approssimazione – è possibile dire che nell’ambito delle omologie non si può più fare a meno, oggi, di distinguere fra caratteri omologhi primitivi (plesiomorfie) e derivati (apomorfie), va anche detto che le omoplasie, cioè i caratteri che non sono né plesiomorfie né apomorfie, non coincidono con le analogie della vecchia tradizione. Presentando invece i due termini (analogia e omoplasia) come sinonimi, si mette su basi incerte tutta la presentazione del moderno metodo comparativo cladistico o filogenetico.
Fatta questa precisazione, posso dire che i pochi paragrafi relativi a quest’ultimo argomento sono gli unici di cui sconsiglio la lettura. A parte questi, il volume è davvero un utilissimo strumento attraverso il quale prendere familiarità con la biologia evoluzionistica. Dico familiarità, perché i capitoli, pur essendo sufficientemente informativi da costituire il testo di riferimento per un insegnamento universitario della materia (e la funzione didattica è sostenuta dai paragrafi di riepilogo e di autoverifica che concludono ciascun capitolo), sono scritti in uno stile sufficientemente discorsivo da rendere l’opera perfettamente fruibile anche come introduzione all’evoluzione biologica, per un pubblico di buona cultura generale ma non necessariamente fornito di precedenti conoscenze in materia.
Va dato pieno riconoscimento ai curatori della grande abilità con cui sono riusciti a integrare i loro contributi e quelli degli altri otto autori in una trattazione alquanto omogenea nello stile, a parte – di necessità – il carattere più tecnico, e ricco di formule matematiche, dei capitoli 4 e 5, dedicati rispettivamente allo studio dei caratteri quantitativi e a una chiara e accurata sintesi di nozioni di base di probabilità e statistica.
Auguro a questo libro un ampio successo. Una rapida diffusione di questa edizione potrà così invogliare l’editore a mettere subito in cantiere una ristampa riveduta e corretta, nella quale – a parte le poche cose già ricordate – sarà possibile sostituire qualche figura (come la 2.9 che rappresenta un cavalluccio marino diverso dall’Hippocampus breviceps di cui parlano il testo e la didascalia) nonché aggiungere alla bibliografia le citazioni, attualmente mancanti, delle pubblicazioni citate nel capitolo 8.
Rassicuro gli autori e i futuri lettori: se ho trovato queste piccole anomalie, è solo perché il libro l’ho letto davvero, dal principio alla fine, ed è stata per me una lettura utile e piacevole insieme, come di rado accade per un libro scritto a più mani, o per un libro concepito come libro di testo per un corso universitario.