Integratori a base di vitamina D: sono davvero efficaci?

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La vitamina D in Italia è la seconda voce di spesa farmacologica per le malattie dell’apparato gastrointestinale, e la prima nel trattamento dell’osteoporosi. Si ritiene che aiuti anche a proteggere dal cancro, dal diabete, dall’ipertensione e dalle malattie cardiovascolari. Non a caso, i consumi di integratori continuano ad aumentare da anni, eppure sulla loro efficacia non si fa che discutere. In particolare quando si parla di prevenzione delle fratture. Se i medici, per lo più, sono compatti nel ritenerla efficace, continuano ad accumularsi metanalisi che sembrano puntare in direzione completamente contraria. Lasciando il pubblico a domandarsi: a chi bisogna dare retta? Si fa bene ad assumere integratori di vitamina D? In prima istanza la risposta è semplice: al proprio medico, come sempre quando si parla di salute.

Ma se si sposta il discorso sul piano della politica sanitaria, della spesa a carico delle casse pubbliche, e più in generale dell’appropriatezza degli interventi sanitari, non è facile capirci qualcosa. Quando la stessa Aifainterviene per bacchettare le prescrizioni troppo facili di vitamina D, e nel frattempo le società scientifiche parlano addirittura dell’80% della popolazione adulta italiana con un deficit di questa sostanza, è chiaro che ci troviamo in un territorio scivoloso. Di certo, come spesso accade, ci sono solo i costi: più di 260 milioni di euro nel 2017 tra vitamina D e suoi analoghi, e solo per il trattamento dell’osteoporosi. Una spesa eccessiva? Vediamo.

Il lungo dibattito sulla vitamina D
Dell’efficacia, reale e presunta, della vitamina D si parla da tempo. Quando l’Aifa nel 2014 ha deciso di prendere posizione, a supporto dei suoi dubbi sull’utilizzo troppo disinvolto di questa sostanza ha citato diverse ricerche: una metanalisi apparsa su Lancet nel 2013, da cui emergeva solamente un marginale miglioramento del rischio di fratture alla testa del femore; una seconda metanalisi dello stesso anno su Lancet – Diabetes and Endocrinology, che suggeriva la possibilità che la carenza di vitamina D non sia una causa di disturbi per l’organismo ma piuttosto la conseguenza di altre condizioni patologiche come l’obesità, infezioni virali e altri disturbi; e un editoriale pubblicato sugli Annals of Internal Medicine dal titolo eloquente Enough Is Enough: Stop Wasting Money on Vitamin and Mineral Supplements (“Quando è troppo è troppo: smettiamo di sprecare soldi con integratori vitaminici e minerali“).

Abbastanza, a parere dell’Aifa, per definire la vitamina D un “sorvegliato speciale, per il trend di crescita costante che le sue vendite stanno facendo registrare in tutto il mondo e per la possibilità di utilizzo inappropriato da parte dei pazienti”. E a quattro anni di distanza, i dubbi non hanno fatto che accumularsi.

2018: lo studio su BMJ minimizza
Una delle ricerche più recenti, e probabilmente al più ampia mai realizzata, è apparsa ad agosto sul British Journal of Medicine. In questo studio, che ha coinvolto oltre 500mila persone, i ricercatori hanno valutato l’effetto di 15 differenti fattori dirischio sulla probabilità di incorrere in una frattura ossea. Per aumentare l’affidabilità dei risultati, hanno utilizzato dei marker genetici per valutare la presenza dei fattori di rischio nella popolazione studiata (una complicata tecnica epidemiologica definita Mendellian randomization), ottenendo un responso inclemente: i livelli di vitamina D nel sangue non sarebbero collegati in alcun modo al rischio di fratture. Come vanno interpretati questi risultati? Lo spiegano gli stessi autori: è probabile che esista un rapporto tra deficienza di vitamina D, indebolimento delle ossa, osteoporosi e rischio di fratture. Ma non si tratta di un legame lineare. Esiste probabilmente una soglia, che la ricerca non era progettata per intercettare, sotto la quale la carenza di vitamina D può causare problemi alle ossa. Ma a detta dei ricercatori deve essere molto bassa, probabilmente più di quanto si ritenga normalmente.

Integratori di vitamina d per una pseudo malattia?
Sull’onda di questi risultati, una parte della comunità scientifica ha iniziato ad farsi scettica nei confronti della vitamina D. Specie a fronte dell’enorme diffusione di questi integratori, ormai consigliati acriticamente in moltissime nazioni: nel Regno Unito ad esempio il governo raccomanda di supplementare la dieta con integratori di vitamina D per tutto il periodo invernale a chiunque abbia superato i 5 anni di età, e più di metà della popolazione assume qualche forma di integratore vitaminico quotidianamente.

In un articolo apparso nelle scorse settimane su The ConversationTim Spector, un professore di epidemiologia genetica del King’s College di Londra, non esita ad equiparare questa mania per la vitamina D alla nascita dell’ennesima pseudo malattia. Un falso bisogno sanitario creato da un intreccio di interessi economici (gli integratori di vitamina d) ed eccessive preoccupazioni da parte di medici e pazienti, che di fatto avrebbe medicalizzato una condizione, la carenza di vitamina D nel sangue, che si rivelerebbe in realtà patologica solamente a livelli estremamente bassi.

Tutta questione di definizioni
Se un epidemiologo come Spector non esita a parlare di pseudomalattia, i clinici tendono ad essere più cauti. Se non altro perché, alla prova dei fatti, la vitamina D sembra proprio funzionare. “L’esperienza che facciamo nella pratica quotidiana è che si tratta di presidi efficaci”, racconta a Wired Vincenzo Toscano, professore di endocrinologia della Sapienza e presidente dell’Associazione medici endocrinologi (Ame). “Detto questo esiste effettivamente un problema con le diagnosi di carenza di vitamina D, ed è duplice: un eccesso di sconsiderato nell’utilizzo degli screening, che spesso sono proposti in assenza di un reale razionale diagnostico e hanno ovviamente un peso in termini economici, e soprattutto una difficoltà nel definire il range di normalità”. Oggi – spiega Toscano – per misurare i livelli di vitamina D presenti nel sangue si ricorre a un test chiamato dosaggio del 25-oh-d, cioè l’analisi della quantità di 25-idrossivitamina D, un metabolita della vitamina D. Il test fornisce una misura dei nanogrammi della sostanza presenti in un millilitro di sangue, ma la questione è decidere quale sia la quantità normale. E un autentico consenso, in questo senso, non si è ancora trovato.

Negli Usa si ritiene che al di sotto dei 30 ng/ml si possa parlare di una carenza, e fino a 50 di quantità comunque inadeguate per garantire la salute delle ossa. E si consiglia quindi il ricorso a supplementi di vitamina D se una modifica della dieta non risolve il problema (e non è facile visto che la vitamina D è contenuta in un numero molto limitato di alimenti, per lo più grassi di origine animale). In Italia solitamente si ritiene che al di sotto dei 30ng/ml si possa parlare di un’insufficienza di vitamina D, che merita la valutazione di un integratore. Ma per l’Ame si tratta di una cifra troppo generosa. “Di recente come società scientifica abbiamo pubblicato un consensus paper in cui invitiamo, in luce della letteratura scientifica più recente, a rivedere alcuni dei criteri diagnostici per l’insufficienza di vitamina D”, racconta l’esperto. “E quello che proponiamo è di ritenere una range normale, in persone sane, un dosaggio che non scenda sotto i 20ng/ml. In presenza di fattori di rischio specifici, come una storia di fratture, obesità o altre patologie concomitanti, è bene invece pensare alla supplementazione anche a livelli di 30 nanogrammi per millilitro”.

Una piccola differenza, che però può significare molto. Troppe diagnosi errate, ad esempio, possono cambiare completamente i risultati delle metanalisi, perché se gli studi presi in considerazione hanno somministrato la sostanza a persone che non ne avevano bisogno è probabile che a livello statistico non emerga l’efficacia dell’intervento.

Integratori di vitamina D: non per tutti

Dunque, come bisogna porsi nei confronti della vitamina D? Si tratterebbe di un aiuto importante in alcune categorie di persone, come donne in post menopausa e anziani, in concomitanza con altri fattori di rischio, e ovviamente pazienti che assumono già trattamenti contro l’osteoporosi. E andrebbe sempre consigliata solamente dopo una accurata anamnesi, e una carenza confermata con il dosaggio di 25-idrossivitamina D. Quel che non va fatto, invece, è considerarla come un trattamento universale, utile per tutta la popolazione dopo una certa età, o in alcuni mesi dell’anno. In assenza di una carenza conclamata, infatti, molto meglio la prevenzione effettuata attraverso i soliti stili di vita salutari: attività fisica, dieta equilibrata, e in questo caso anche adeguata esposizione al sole durante l’anno, visto che (come sanno ormai quasi tutti) la produzione di vitamina D nel nostro organismo è stimolata dalla luce solare.

Via Wired.it

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