Le ragioni di un successo

Ben 105 mila aziende in Europa (di cui circa 50 mila in Italia), per un totale di un milione di ettari, producono con i metodi dell’agricoltura biologica. E il loro mercato è in espansione: sempre più consumatori si rivolgono infatti a questo tipo di prodotti, che nel ‘99 hanno generato solo nel nostro Paese un giro d’affari di duemila miliardi, di cui 1100 realizzati sul mercato interno. E l’Italia è anche il Paese europeo che ha maggiormente utilizzato le opportunità offerte dalla Unione europea all’agricoltura biologica ed ecocompatibile, assorbendo quasi il 30 per cento delle risorse disponibili. Galileo ha chiesto a Damiano Petruzzella dell’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari, di spiegare quali sono i vantaggi per l’ambiente e per i consumatori di questo diverso modo di coltivare la terra.

Dottor Petruzzella, come e perché è nata l’agricoltura biologica?

“Per capirlo, bisogna andare in Germania dove, alla fine dell’Ottocento, si affermò un clima culturale che propugnava il “ritorno alla natura”, fenomeno, questo, dal quale emerse, tra l’altro, il movimento antroposofico fondato da Rudolf Steiner (1861-1925). In tale contesto furono elaborati i principi dell’agricoltura “biodinamica”. Più tardi, nel 1943, Lady Eve Balfour fondò in Inghilterra la Soil Association e, sempre in quegli anni, in Svizzera, Hans Muller e Hans Peter Rusch misero a punto il metodo “biologico” di produzione agricola. Organizzazioni e associazioni promotrici della produzione biologica incominciano, però, a diffondersi a partire dagli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo. In particolare, nel 1972, nasce in Francia l’International Federation of Organic Agriculture Movements (Ifoam), il cui impegno porta al progressivo riconoscimento dell’agricoltura biologica da parte delle amministrazioni statali competenti. Successivamente, negli anni Ottanta, con il crescere della domanda di prodotti di qualità da parte dei consumatori, l’agricoltura biologica inizia a decollare in molti Paesi europei. Nel decennio successivo, la politica agricola comune (Pac) e, più in generale, la consapevolezza raggiunta a livello politico, delle implicazioni ambientali delle attività agricole convenzionali, contribuiscono a creare un contesto favorevole al riconoscimento e allo sviluppo del metodo biologico. Tanto che, il 24 giugno del 1991, viene approvato dal Consiglio della Cee un regolamento (n. 2092, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22/07/91) per il metodo di produzione biologica di prodotti agricoli, che prevede anche la sua indicazione sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari. Questo, insieme all’entrata in vigore di un regolamento Cee 2078/92, che ha consentito cospicue erogazioni di contributi alle aziende, ha dato una vigorosa spinta, anche in Italia, alla progressiva conversione delle superfici coltivate dal convenzionale al biologico”.

In che cosa si differenzia l’approccio “biologico” rispetto a quello “convenzionale”?

“In generale, nell’agricoltura biologica si pone l’accento sull’utilizzazione ottimale delle risorse rinnovabili, in particolare del suolo. Il suolo è una delle più preziose risorse naturali: non è rinnovabile nel breve e medio periodo e la sua disponibilità è limitata, senza contare che in alcuni areali è ormai evidente la tendenza alla desertificazione. Forme di agricoltura intensiva hanno infatti finora condotto a un notevole depauperamento della risorsa suolo, soprattutto in termini di fertilità organica, uno degli aspetti più importanti e troppo spesso trascurati, sia per superficialità che per interessi di parte. Semplificando, comunque, si può affermare che nell’agricoltura convenzionale la coltura è posta al centro di tutto il sistema: sulla base delle esigenze nutritive di questa (le quantità di elementi minerali che asporta nel corso del ciclo di sviluppo) vengono apportati i concimi, per lo più di sintesi. Il ruolo del suolo si riduce a quello di mero substrato di crescita, al limite inerte, come nel caso della coltivazioni idroponiche. In agricoltura biologica il discorso si ribalta: tutte le attenzioni sono rivolte al suolo. Se questo è mantenuto in ottima salute dal punto di vista fisico, chimico e microbiologico, le colture vi troveranno tutto ciò di cui hanno bisogno, senza bisogno di ulteriori apporti. Paradossalmente, la caratteristica principale dei sistemi agricoli di tipo biologico è quella di non puntare semplicemente alla produzione di derrate commerciali, che pure, ovviamente, è un obiettivo importante, ma alla produzione di biomassa e al contenimento del livello di dipendenza da input esterni (fertilizzanti e antiparassitari). L’agricoltura biologica rinuncia ai mezzi chimici di sintesi, sia per la difesa delle colture che per la gestione della fertilità dei suoli, e tende a recuperare e a valorizzare principalmente le risorse aziendali e locali. Questo, all’atto pratico, si traduce nella conservazione dell’humus, nel ricorso al compostaggio di superficie e nella limitazione delle lavorazioni allo stretto necessario, onde evitare l’alterazione della microflora del terreno. E in questa logica, i cosiddetti “scarti aziendali” non rappresentano un rifiuto, qualcosa di cui sbarazzarsi, ma una risorsa da valorizzare. E’ il concetto di “azienda a ciclo chiuso”, rivalutato e adeguato ai tempi. In questo modello, il ciclo produttivo è organizzato in modo tale da ottenere sia derrate commerciali che prodotti utili alla gestione complessiva dell’agroecosistema”.

Che differenze ci sono tra agricoltura biodinamica e biologica o, come spesso si sente dire, organica?

“L’agricoltura biologica (organica nella denominazione anglosassone) come è intesa oggi, cioè anche e soprattutto come un’attività economica, è essenzialmente diversa da quella biodinamica.Si può generalmente assumere che la prima sia basata su presupposti scientifici, mentre la seconda più che altro su motivazioni di carattere ideologico-filosofico che si rifanno all’antroposofia, il sistema filosofico elaborato da Rudolf Steiner all’inizio del secolo. Tra i principi base dell’antroposofia c’è quello secondo il quale la vita è il risultato dell’incontro tra materia e forze immateriali provenienti dal cosmo. La dottrina agronomica che ne deriva attribuisce per questo ai cicli astronomici e alle posizioni della Luna un ruolo di primo piano, “dinamico”, nell’influenzare i cicli colturali. Per rendere piante e suolo più ricettivi nei confronti delle “forze cosmiche”, l’agricoltura biodinamica prevede l’impiego di “preparati” come il “corno-letame” (letame interrato d’autunno all’interno di un corno bovino) o il “corno-silice” (quarzo macinato e interrato d’estate all’interno di un corno bovino). Si capisce facilmente come l’aleatorietà delle esperienze generate da una tecnica priva di fondamenti scientifici comporti fragilità e insicurezza anche sul fronte della produzione e soprattutto della commercializzazione. Da qui l’impressione che questo sistema agronomico, come altri simili, non possa essere definito “da reddito”, ma piuttosto un hobby, a differenza dell’agricoltura biologica”.

Come si può fare a meno dei prodotti di sintesi?

“In primo luogo, occorre un’adeguata conoscenza delle potenzialità del terreno e delle possibili soluzioni per migliorare la sua fertilità, in termini fisici, chimici e microbiologici. Quindi, si può ricorrere al riciclaggio di tutte le materie organiche: la loro decomposizione, infatti, provoca la liberazione progressiva di sostanze fertilizzanti, e ciò corrisponde a un frazionamento naturale degli apporti. La combustione di sostanza organica, residui colturali e altro, pratica a cui troppo spesso ricorrono gli agricoltori delle regioni mediterranee, è dunque decisamente da evitare. Opportune, invece, sono le rotazioni lunghe (pluriennali) con inserimento di colture da sovescio (per esempio leguminose) da incorporare al terreno per aumentare la sostanza organica in esso presente, il compostaggio dei residui aziendali e territoriali e l’introduzione, o il mantenimento, di aree rifugio (siepi, macchie di vegetazione spontanea) per ospitare i nemici naturali dei parassiti delle colture.La validità di questo tipo di interventi, che hanno effetti positivi sulla gestione della fertilità del suolo e sul controllo dei parassiti, è sottolineata dalla normativa comunitaria. Questa prevede un impiego contenuto delle risorse non rinnovabili o limitate e, solo in caso di estrema necessità, ammette il ricorso a determinati mezzi tecnici mutuati dal convenzionale, e riportati in appositi allegati facenti parte del regolamento comunitario (allegati A e B del Reg. CEE 2092/91 e successive modifiche). Anche l’allevamento ha un ruolo importante nella gestione aziendale, oltre che per le produzioni zootecniche vere e proprie, per i sottoprodotti e il letame che genera. Proprio per l’importanza accordata agli aspetti fisici e microbiologici del terreno e al loro miglioramento, è infatti basilare una fertilizzazione a base organica, che può essere reperita sia a livello aziendale che locale”.

Si può fare a meno anche dei pesticidi?

“Sì, perché anche la protezione fitosanitaria si basa sulla prevenzione e sul miglioramento della capacità di autoregolazione dell’agroecosistema. Solo in casi estremi, la normativa comunitaria permette il ricorso a trattamenti con prodotti di sintesi. Il metodo di produzione biologico si basa comunque sull’uso di varietà vegetali idonee all’ambiente di coltivazione, allo scopo di valorizzare le capacità intrinseche delle piante (produttività, sviluppo, resistenza alle fitopatie). D’altro canto, è proprio l’attività antropica, con l’intensificarsi di pratiche colturali di notevole impatto, a provocare alterazioni degli equilibri negli ecosistemi agricoli. Uno degli indici più evidenti di queste alterazioni è rappresentato proprio dall’intensificarsi degli attacchi parassitari e delle malattie crittogamiche. Il metodo biologico prevede quindi il ripristino di un’elevata diversità ambientale, che è data dalla relazione tra numero di specie e numero di individui per ogni specie. Questo modello, che può avere scarso significato se applicato a una o poche specie, rappresenta una delle possibilità concrete di analisi della biocenosi, ai fini di un controllo di organismi che solo in determinate condizioni possono trasformarsi da ospiti in organismi nocivi e/o dannosi. Tutte queste condizioni sono riconducibili essenzialmente alle interazioni pianta-ambiente-parassita. E solo la profonda conoscenza di tali interazioni può consentire l’adozione di soluzioni adeguate e la limitazione del ricorso ai mezzi tecnici ammessi dal regolamento Cee 2092/91, in caso di pericolo per la produzione e, quindi, dei redditi. Per favorire il ripristino delle condizioni di equilibrio tra organismi potenzialmente nocivi e loro competitori è dunque necessaria la conoscenza del biotopo (il campo coltivato e l’ambiente fisico che lo circonda) e della biocenosi (organismi animali e vegetali) dell’ambiente in cui si opera. L’integrazione delle conoscenze acquisite in questo senso permette di favorire lo sviluppo di specie utili, di controllare le piane infestanti attraverso pratiche colturali e interventi meccanici, nonché di effettuare “lanci” di insetti utili e, solo se necessario, interventi di controllo con i mezzi tecnici ammessi dalla normativa comunitaria”.

E per il controllo delle erbacce?

“Anche le piante infestanti sono per l’agricoltura biologica una risorsa da gestire piuttosto che un nemico da eliminare. L’introduzione e la coltivazione di una determinata specie comportano un equilibrio differente per la struttura e la dinamica delle comunità di infestanti, ma queste possono essere regolate dal sistema produttivo. E’ questo un approccio fondamentale e innovativo per la gestione della flora spontanea, che può essere valorizzata o controllata in dipendenza delle condizioni pedoclimatiche e colturali (interferenza con le colture, andamento stagionale, tipo di essenze presenti, ecc.). Il sistema di coltivazione, la definizione del periodo critico di interferenza delle infestanti, la possibilità di metodi alternativi di controllo sono i fattori tramite cui è possibile razionalizzare la gestione delle infestanti”.

Cosa comporta il passaggio dal convenzionale al biologico?

“L’agricoltura biologica presuppone una visione olistica di sistema che, piuttosto che rivolgere la sua attenzione alle singole colture, separate dall’agroecosistema che le comprende, come avviene nell’agricoltura convenzionale, considera i sistemi colturali e l’intero agroecosistema aziendale e territoriale. La conversione di un’azienda alla agricoltura biologica chiama in campo quindi la capacità dell’imprenditore di osservare l’interazione di queste dinamiche. Egli deve considerare sia gli aspetti agronomici ed economici tipici della coltura sia gli aspetti caratteristici dell’agroecosistema aziendale e del territorio in cui opera. E tenere conto del fatto che il risultato dell’interazione di queste componenti è superiore alla loro semplice sommatoria. Un agroecosistema deve essere allo stesso tempo produttivo e protettivo nei confronti dell’ambiente. Come parsimonioso nell’uso di energia: funzionare con la massima autonomia possibile e fornire cibi di qualità, esenti da prodotti chimici di sintesi. Il suo modello sono i sistemi naturali, nei quali a una biodiversità accentuata corrisponde una maggiore stabilità e capacità produttiva. Nella pratica, il raggiungimento di tale modello avviene attraverso la realizzazione di un sistema complesso di interventi che mirano a garantire un elevato grado di auto-mantenimento e a conservare il suolo e la sua fertilità. Questa è strettamente connessa con il controllo del ciclo dell’acqua, con le opere di sistemazione agraria, di interventi di lavorazione e di scelte colturali che si riflettono sul grado di copertura del terreno (numero di piante per unità di superficie). Ma anche con l’esistenza di una complessità strutturale e genetica, che può essere favorita dal ripristino della biodiversità, dai processi di rinaturalizzazione vegetale e dal recupero delle strutture eco-paesaggistiche tipiche del territorio”.

In quale misura si può parlare di sostenibilità ambientale per questo tipo di aziende agricole?

“Allo stato attuale, non si conosce l’impatto ambientale determinato dall’agricoltura biologica. Dico questo, perché non escludo che l’attuale predominante metodologia applicata dalle aziende, basata quasi esclusivamente sulla sostituzione di input di origine chimica di sintesi con quelli di origine naturale ammessi dalla normativa, non determini problemi ambientali. Molti prodotti ammessi, come il piretro o il rame, determinano un impatto negativo sull’ambiente. L’aspetto importante è che, alla base del metodo di produzione biologico, vi è la tendenza da parte dell’azienda di ricorrere il meno possibile all’utilizzo di input esterni. Questo rappresenta l’evoluzione del settore e l’unica via oggi possibile verso una agricoltura sostenibile”.

A parte i vantaggi ambientali, cosa offre la produzione biologica al consumatore?

“Le produzioni dell’agricoltura biologica garantiscono, attraverso un sistema di controllo affidato a organismi terzi, l’assenza di residui di prodotti chimici di sintesi (qualità sanitaria). Tale garanzia è determinata da analisi chimico-fisiche che attestano il prodotto è privo di residui, anche se non è escluso che questi siano stati utilizzati durante il ciclo di produzione (prodotti a residuo zero). La garanzia è determinata dal fatto che i prodotti chimici di sintesi non vengono utilizzati durante la produzione, per cui non sono presenti nell’ambiente di produzione e tantomeno nei prodotti. In assenza di ricerche adeguate, al momento non si può invece affermare con certezza che i prodotti da agricoltura biologica abbiamo altre caratteristiche qualitative, come per esempio un migliore sapore. C’è da dire, però, che l’adeguamento dei sistemi colturali alle caratteristiche pedoclimatiche e l’assenza di sistemi di forzatura spinti, favoriscono ed esaltano le caratteristiche qualitative del prodotto”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here