Parmitano racconta la sua seconda passeggiata spaziale

“Mi sentivo come un pesce dentro una boccia”. Una situazione non esattamente piacevole. Specie se ci si trova quattrocento chilometri sopra la superficie terrestre, nell’oscurità dello Spazio, la testa chiusa in uncasco pressurizzato. A farne le spese è stato Luca Parmitano, durante la seconda Eva (Extra-Vehicular Activity, la passeggiata all’esterno della Stazione spaziale internazionale) del 16 luglio scorso, bruscamente interrotta a causa di una perdita d’acqua all’interno della tuta. A più di un mese di distanza, passata la paura, Luca racconta quello che è successo in un post sul suo blog. L’uscita dalla Stazione. L’emozione di essere per la prima volta il leader di una missione di questo tipo. L’inizio del lavoro all’esterno. Poi la sensazione che“qualcosa non è in ordine”: il livello dell’acqua che sale sempre più nel casco, fino ad annebbiare completamente la vista. E infine il difficile rientro a casa.

All’inizio, racconta Luca, tutto sembrava andare bene. Anzi, benissimo. “Mi sento carico, come se elettricità, e non sangue, mi scorra nelle vene – ma voglio essere sicuro di poter assaporare e dimenticare tutto. Mi preparo mentalmente ad aprire il portello, perché sarò io a uscire per primo, e forse è una fortuna che sia notte: almeno non ci sarà niente a distrarmi”. Qualche altro istante perché la procedura di depressurizzazione sia completa e poi l’astronauta di Paternò è fuori. Perfettamente a proprio agio, si dirige sicuro verso la zona posteriore della Stazione, dove il suo compito è di collegare dei cavi, poi svolgerli e fermarli con dei ganci metallici. Nonostante le ovvie difficoltà, il lavoro procede spedito: “Con molta pazienza, e un po’ di fatica, riesco a collegare un’estremità del secondo cavo alla presa e poi, muovendomi all’indietro senza poter vedere, mi disincastro dalla scomoda posizione in cui ho lavorato. Shane, da terra, mi comunica che sono quasi 40 minutiin anticipo sullo stimato.

A questo punto ha inizio il dramma. “Mentre sto pensando a come svolgere in maniera ordinata il cavo”, racconta Parmitano, “‘sento’ che qualcosa non è in ordine. La sensazione, inattesa, di acqua sulla nuca, mi sorprende – e sono in un posto dove preferirei non avere alcuna sorpresa”. Non  dev’essere stato facile comunicare a Terra cosa stava succedendo. Soprattutto sapendo che quasi sicuramente il problema avrebbe comportato la fine dell’Eva. “Siamo entrambi [Luca e il collega Chris Cassady, che lo sta accompagnandonella passeggiata, nda] convinti, inizialmente, che si possa trattare di acqua potabile dal mio contenitore, fuoriuscita attraverso la cannula, o di sudorazione. Ma io sento che la temperatura del liquido è troppo fredda per essere sudore, e soprattutto ho la netta sensazione che stia aumentando in volume – e non vedo alcun liquido fuoriuscire dalla valvola dell’acqua potabile”.

Poi arriva inevitabile dalla Terra l’ordine di terminare la sortita – terminare, non abortire, espressione usata per avarie più gravi – e Luca inizia le manovre di rientro. Ma non è così facile. L’acqua continua ad aumentare:“La sento coprire il tessuto spugnoso delle cuffie. L’acqua ricopre quasi del tutto la parte frontale del mio visore, al quale aderisce riducendomi la visibilità”. E, come se non bastasse, ci sono anche degli ostacoli che intralciano l’astronauta: “Mi accorgo che per poter superare una delle antenne nel mio percorso dovrò riposizionare il mio corpo verticalkmente, anche per permettere al mio cavo di sicurezza di riavvolgersi regolarmente. E in quel momento, mentre mi posiziono a ‘testa in giù’, due cose succedono contemporaneamente: il sole tramonta, e la mia capacità di vedere, già ridotta dall’acqua, svanisce del tutto rendendo inutilizzabili i miei occhi”. La situazione, insomma, sta rapidamente precipitando.

Luca non può più comunicare con Chris né con la Terra. L’acqua ha compromesso il funzionamento del suo microfono. Con la visibilità ridotta a un paio di centimetri – il che smentisce la ricostruzione post-incidente dell’Asi, secondo la quale “non è vero che Luca avesse problemi di visibilità, l’acqua non aveva raggiunto il livello degli occhi” –, l’astronauta capisce che l’unico modo per tornare alla Stazione è farsi tirare dalla molla di riavvolgimento del suo cavo di sicurezza: “Non è molto, ma è l’idea migliore che ho al momento: seguire quel cavo fino all’airlock. Mi sposto per quello che sembra un tempo lunghissimo. E finalmente, con grande sollievo, riesco a intravedere, oltre la cortina di acqua davanti ai miei occhi, la copertura termica dell’airlock”.

Parmitano fa rientro nella camera di pressurizzazione, comunicando a gesti con i colleghi e attendendo pazientemente l’apertura del casco. E alla fine può tirare un sospiro di sollievo. C’è mancato davvero poco.“Lo Spazio è una frontiera, dura e inospitale, in cui noi siamo ancora egli esploratori e non dei coloni”, conclude l’astronauta. “La bravura dei nostri ingegneri, e la tecnologia che abbiamo a disposizione, fa sembrare semplici cose che non lo sono, e a volte forse lo dimentichiamo. Meglio non dimenticare”.

Credits immagine: NASA

Via: Wired.it

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