Rohingya, l’emergenza cresce con l’arrivo dei monsoni

Rohingya
(Foto: Russell Watkins/Department for International Development via Flickr/DFID-UK Department for International Development CC)

Sono circa 860.000, in gran parte bambini, i Rohingya che vivono in condizioni precarie nei campi di accoglienza organizzati dalle associazioni umanitarie in Bangladesh, in seguito alla fuga dal loro paese d’origine. Fuggiti da un clima di violenze e persecuzioni, alle prese con problemi igienici, sanitari, sovraffollamento e ora anche con l’arrivo dei monsoni, che rischia di peggiorare la situazione già drammatica.

I Rohingya sono un gruppo di fede musulmana che risiede nello stato di Rakhine, nel Myanmar (Birmania), da sempre considerati da molti come degli immigrati del Bangladesh, giunti in Birmania durante la dominazione britannica. Non sono mai stati riconosciuti dal Governo come cittadini birmani e per questo hanno enormi restrizioni.

Sono costretti a vivere alle porte della città di Sittwe, il capoluogo del Rakhine, in condizioni di povertà e sovrappopolamento. Non possono essere proprietari di terreni e al massimo possono avere due figli. Dal 1982, quando fu promulgata dal governo la Legge sulla Cittadinanza che negava loro la cittadinanza, la mancanza di diritti e le continue violenze subite, hanno costretto i Rohingya a fuggire e a lasciare quel poco che avevano. Nell’agosto del 2017, in seguito a sanguinosi scontri tra musulmani e militari birmani , la situazione in Myanmar è precipitata , e i Rohingya sono stati costretti a un esodo forzato che continua ancora oggi, e che porta migliaia di persone a varcare il confine con il Bangladesh.

Oggi in Bangladesh si contano circa 860.000 rifugiati, di cui 680.000 giunti dopo il 25 agosto 2017, che vivono accampati in enormi campi allestiti da numerose associazioni umanitarie a Sud del Paese, vicino alla città di Cox’s Bazar. Purtroppo quelli che sono rimasti in Myanmar continuano a vivere in un clima di continue violenze, con grosse restrizioni sociali e religiose, in una condizione simile a quella vissuta durante l’apartheid.

Il numero sempre crescente di profughi ha però aggravato le condizioni nei campi di accoglienza di Cox’s Bazar: acqua potabile e cibo scarseggiano e le condizioni igieniche peggiorano sempre di più a causa del sovraffollamento. Servono anche strutture mediche e luoghi in grado di offrire un supporto psicologico a donne e bambini che hanno assistito e subìto atti di violenza estrema. A marzo 2018, l’ONU e alcune associazioni umanitarie non governative hanno lanciato un Piano Congiunto di Risposta alla crisi per la ricerca di risorse per far fronte allo stato di emergenza dei bisogni dei rifugiati e del governo bengalese.

“Le condizioni igieniche all’interno dei campi di accoglienza sono critiche e si teme sempre di più la diffusione di malattie come il morbillo, la difterite e il colera a causa del sovraffollamento e del livello molto alto di malnutrizione tra i bambini”, racconta Filippo Ungaro, direttore della comunicazione di Save The Children. Un gruppo internazionale guidato Eva Leidman dei Cdc americani (Centers for Disease Control and Prevention), ha appena pubblicato su Jama una ricerca proprio sui livelli di malnutrizione dei bambini . Lo studio, svolto su un gruppo di bambini del campo di accoglienza di Kutupalong, in Bangladesh, di età compresa tra i 6 mesi e i 5 anni, ha mostrato che circa il 24% è caratterizzato da malnutrizione globale acuta, il 7,5% da una condizione di malnutrizione acuta grave e il 43, 4% da malnutrizione cronica, mentre il 47,9 % mostra segni di anemia. L’analisi eseguita su bambini tra i 6 e i 23 mesi ha mostrato che soltanto il 9,8% ha ricevuto una dieta diversificata. 

Ma la situazione mostrata da Leidman e colleghi racconta solo una parte del dramma. “Mancano le scuole e gli spazi ricreativi per i bambini. Ma ora dobbiamo pensare all’arrivo dei monsoni, perché tutta l’area di accoglienza è a rischio di alluvione”, riprende Ungaro. A rischio durante la stagione, che si protrarrà fino a dicembre, il danneggiamento di 3000 latrine, 4000 punti di rifornimento idrico, ricordano dall’Unicef, insieme alla contaminazione con acqua inquinata dei pozzi. Con tutti i pericoli conseguenti: rischio annegamento e malattie epidemiche, correlate alla mancanza di servizi igienici.  E non solo: “Abbiamo paura che con l’arrivo dei monsoni riemergano molti rifiuti. È necessario rafforzare i rifugi fatti di plastica e bambù e spostare le famiglie che vivono in zone a rischio”, conclude Ungaro.

Serve uno sforzo congiunto in vari settori – dai centri di cura, al potenziamento delle vaccinazioni, all’allestimento e mantenimento dei servizi igienico-sanitari – per fronteggiare un’emergenza che diviene ogni giorno sempre più grande.

Foto copertina: Russell Watkins/Department for International Development via Flickr/DFID-UK Department for International Development CC)

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here