Scuola: indicazioni nazionali, istruzioni per l’uso

E’ già passato un anno dall’approvazione, da parte dell’allora Ministro Profumo, delle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’Infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012) che, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, sono ormai diventate legge dello Stato. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, gli insegnanti a cui sono dirette non riescono ancora né a gustare né a lasciarsi tentare dalle innovazioni metodologiche e disciplinari proposte.  

Questo nasce in parte dalla difficoltà di sostituire, nella metodologia e nel comune modo di pensare, il tradizionale programma con un curriculum di scuola da costruire insieme: tra docenti, centrato sui ragazzi, non nozionistico ma capace di organizzarsi intorno ad idee potenti, quelle che danno senso e significato alle discipline ma che al tempo stesso sono capaci di collegarle per gettare uno sguardo non frammentario sul mondo. Altre difficoltà invocate per giustificare il non-cambiamento sono quelle di sempre: la mancanza di tempo, la pressione dei genitori, l’eccesso di alunni, la preparazione delle verifiche. Di fatto, una consolidata routine assoggetta ancora gli insegnanti a una sequenza precostituita di argomenti da svolgere, e li costringe a un fare scuola che contrasta con lo spirito innovativo delle Indicazioni stesse.

Ovviamente è più comodo e più sicuro fare quello che si è sempre fatto, cioè seguire, pagina dopo pagina, una traccia di lavoro che riduca la fatica di scegliere, tra i tanti possibili, solo alcuni argomenti significativi, di modellarli sulla propria classe, di svilupparli in funzione di traguardi da raggiungere, di orientare la propria  programmazione “alla qualità dell’apprendimento di ciascun alunno e non a una sequenza lineare, e necessariamente incompleta, di contenuti disciplinari”.

Nonostante l’apparente garanzia di sicurezza, però, la strada tradizionale non ha portato nel tempo a risultati particolarmente buoni. E tutti sappiamo quanto siano labili gli imparaticci mnemonici sulla vita dei Terramaricoli o sul trapassato remoto dei verbi. Per questo la richiesta delle Indicazioni alla scuola è quella di innovare contenuti e metodologie, adeguandosi alle esigenze del nostro tempo, dove non è difficile reperire le informazioni di cui si ha bisogno ma dove è sempre più necessario essere persone  capaci di scelte autonome e socialmente responsabili. Si tratta, per la scuola, di un compito molto alto e, come tutti i compiti alti, difficile, faticoso e spesso scomodo; ma se ogni cambiamento di sistema richiede sempre  tempi lunghissimi, si può sempre cominciare a fare qualcosa nella nuova direzione, soprattutto se si costruiscono condizioni favorevoli.

Per cominciare, non basta  introdurre nel didattichese rituale la parola “competenza”, ma serve che gli insegnanti sviluppino un diverso modo di guardare al proprio lavoro, che attivino un differente “contratto didattico” capace di legare in modo complesso il loro ruolo, quello degli studenti e il mondo della conoscenza. Ad esempio, per riuscire a cambiare “contratto” bisogna che l’intera scuola sia solidale con le nuove scelte, ma bisogna anche che ogni insegnante sia culturalmente autonomo, abbia una solida competenza didattica e… una buona dose di orgoglio professionale.

L’autonomia, che la scuola si propone di sviluppare fin dalla scuola dell’infanzia, diventa una qualità fondamentale anche per l’insegnante. Come suggeriscono le Indicazioni, l’autonomia comporta la fiducia in sé e la fiducia negli altri, la soddisfazione nel fare da sé e il saper chiedere aiuto, esprimere le proprie opinioni, operare scelte ed esserne responsabile. Un insegnante autonomo può permettersi di sfidare il conformismo didattico, può innovare le proprie metodologie di insegnamento senza temere le ostilità dei colleghi e discutendo i propri obiettivi formativi con i genitori, può impegnarsi ad arricchire la propria cultura, adeguandola al mondo di oggi ed alle sue non sempre prevedibili esigenze.

La libertà di fare delle scelte nei contenuti e nelle modalità di insegnamento permette – attraverso le Indicazioni – di non essere più vincolati a un Programma da svolgere fino alla fine, ma di organizzare in tempi distesi l’approfondimento degli argomenti scelti, evitando “le trattazioni di argomenti separate da ogni esperienza e frammentate in nozioni da memorizzare, promuovendo invece attività significative nelle quali gli strumenti e i metodi caratteristici delle discipline si sovrappongano e si intreccino tra loro”.

Un  curriculum di scuola concordato tra docenti, infatti, potrebbe non essere esaustivo e privilegiare alcuni contenuti  rispetto ad altri, approfondendoli senza la pretesa di insegnare un po’ di tutto. Se poi, alla fine dell’anno, alcuni argomenti non fossero stati trattati, i ragazzi avrebbero però dovuto acquisire competenze e strumenti adatti per affrontarli, al bisogno, anche da soli.

I libri di testo
Uno dei pressanti criteri che, secondo il  Ministero (C.M. n. 31 del 18 aprile 2012), dovevano essere seguiti dal nucleo redazionale e dai consulenti esperti nella revisione delle Indicazioni, era quello di curare con particolare attenzione la struttura e la forma linguistica del testo affinché lo stesso sia leggibile e comprensibile anche da parte di cittadini non esperti del settore scolastico.

Molti sforzi sono stati fatti in questo senso, e il testo è stato sottoposto ad una revisione generale da parte di linguisti che dovevano usare le loro competenze per garantirne la leggibilità. Se però è relativamente facile dare Indicazioni aggiornate e comprensibili, è sempre molto difficile realizzarle nella pratica quotidiana e, soprattutto, è difficile vincere la diffidenza che spesso sostiene una quasi fisiologica resistenza al cambiamento. E i libri scolastici non aiutano. Se fidarsi è bene, non fidarsi è meglio: infatti, per non generare possibili equivoci, numerose agenzie e case editrici si sono premurate di ritradurre gli obiettivi di apprendimento elencati nel testo ministeriale nel vecchio amato didattichese obsoleto, sorvolando sul significato generale delle innovazioni metodologiche e didattiche indicate. Scorrendo gli indici dei libri scolastici (presentati da diverse note case editrici) si vede infatti come il significato del cambiamento proposto abbia perso  consistenza, e si sia serenamente ritornati alla tradizionale sequenza di argomenti da insegnare (da fare studiare) senza che i nuovi (prescrittivi) traguardi da raggiungere abbiano disturbato la ritualità standardizzata della successione dei “soliti” contenuti.

Questo ritorno all’antico si nota soprattutto nell’equilibrio tra le diverse sezioni operative presenti nei testi e negli eserciziari in vendita, soprattutto per quanto riguarda le discipline ritenute fondamentali, come italiano e matematica. Così moltissimo spazio e moltissimi esercizi sono dedicati a sviluppare quegli argomenti tradizionali che invece rappresentano soltanto una componente minimale dei nuovi obiettivi di apprendimento o degli assai più complessi traguardi. E siccome gli esercizi minuziosi fondati sulla memoria a brevissimo termine richiedono del tempo e dello spazio (come, ad esempio, le pagine e pagine di “grammatica esplicita”), vengono necessariamente trascurate le richieste più innovative che, per l’italiano, riguardano la riflessione sulla grammatica implicita, gli aspetti interpretativi dei testi, la ricerca di significato, l’elaborazione di pensiero autonomo.

Sempre per venire incontro a un irresistibile bisogno di sicurezza e di efficacia, al termine delle schede di lavoro che compongono gli eserciziari allegati ai vari libri di testo si trovano spesso indicazioni del tipo: “Oggi ho imparato che…”, nel caso in cui il bambino non si fosse accorto da solo di aver imparato qualcosa. Analogamente, spesso l’esercizio proposto garantisce (all’insegnante?) l’acquisizione da parte dei ragazzi di una determinata competenza, sempre nel caso in cui l’insegnante stesso credesse nei miracoli e  non fosse consapevole del significato dell’attività svolta.
 
Lo “squilibrio verso l’antico” si ritrova anche nella rigorosa frammentazione dei testi in materie, ovviamente in contrasto con la pressante richiesta di un sapere unitario da costruire con contributi disciplinari diversi. Fascicolo dopo fascicolo, le materie si inseguono e si sovrappongono nel tempo della scuola, a volte trattando lo stesso argomento senza alcun tentativo di correlazione reciproca. Così, per esempio, per un ragazzino di quinta non è facile ri-conoscere, facendo geografia, la pressione atmosferica che fa bella mostra della sua definizione come “peso” dell’aria (tra virgolette), nella pressione (peso su superficie, senza virgolette) che si trova nella apposita paginetta di scienze.

Le competenze e le strategie cognitive
La capacità di “lavorare per competenze” nella scuola o di “sviluppare competenze” nei ragazzi dovrebbe poter collegare, con vincoli più o meno stretti, il sapere e il saper fare; dovrebbe contribuire a formare le diverse personalità e dare la capacità di utilizzare, nelle situazioni e nei contesti concreti, quello che si è imparato. Il contesto scolastico, però, ha ancora una sua vita autonoma, ben separata dal mondo esterno da muri e custodi, con rari momenti di scambio effettivo. Di conseguenza anche il saper-fare che si dovrebbe acquisire diventando “competenti” si risolve e si certifica quasi esclusivamente come se fosse puro sapere. Si resta sempre dentro il contesto scolastico ma magari ci si immagina fuori: si fa finta di trovarsi in situazioni problematiche, di fare un viaggio straordinario,  di dover parlare con stranieri. E sempre restando all’interno del sistema si tenta di raggiungere, nelle singole discipline, i traguardi fissati che riguardano al tempo stesso comportamenti e conoscenze.

Ma le Indicazioni non dicono solo questo. Le motivazioni che introducono gli elenchi (spesso troppo lunghi) degli obiettivi di apprendimento fanno riferimento, di solito, all’acquisizione di competenze cognitive di livello più alto.  Raggiungere i “traguardi” di competenza attraverso i percorsi delineati dagli obiettivi richiede, infatti, un notevole salto di qualità e una non banale reimpostazione della didattica che porti dalle nozioni imparate al loro uso consapevole (non è facile che un ragazzo, pur conoscendo a memoria la coniugazione dei verbi nelle diverse persone tempi e modi, sappia poi costruire con competenza un discorso usando correttamente i verbi nelle persone tempi e modi  necessari). Per fare un esempio, si può immaginare che le nozioni-informazioni siano come i pali che, come prima attività, venivano piantati per costruire i  villaggi su palafitte. Ma i soli pali non bastano. Bisogna connetterli con tavolati resistenti e sul tavolato costruire poi le abitazioni. Così le informazioni slegate devono essere connesse in modo organico e solo così possono essere utilizzate per costruire pensiero e competenze.

Se veramente si vuole che i ragazzi imparino a imparare, bisogna sviluppare soprattutto competenze “trasversali” necessariamente più astratte ma, proprio per questo, di vasta portata e capaci di guidare con consapevolezza il pensiero autonomo. Forse, se l’insegnante ne fosse convinto, sarebbe possibile ragionare con i ragazzi sui criteri “generali” (metacognitivi) con cui guardare i fatti di esperienza. Ragionando sull’efficacia delle varie interpretazioni si possono costruire quelle impalcature di pensiero stabili che sostengono la molteplicità (e l’evoluzione) delle conoscenze disciplinari e che permettono di affrontare anche situazioni di vita non scolastica. Si potrebbero aiutare i ragazzi a riconoscere, nelle diverse situazioni, quello che bisogna andare a guardare,  i modi in cui si capisce, cioè le strategie di pensiero che, a vari livelli di astrazione, offrono criteri per spiegare fatti e fenomeni.

Per esempio, si potrebbe imparare a riconoscere come in trasparenza, nei contesti di esperienza concreta, “la struttura che connette”, come scriveva Bateson, e cercare le regole con cui i singoli elementi si organizzano nella forma complessiva. Riconoscere come le componenti del linguaggio si articolano in strutture di significato richiede graduali e crescenti capacità di astrazione, ma è certamente più significativo dell’imparaticcio grammaticale, come è fondamentale ricondurre alla struttura della materia la varietà dei fenomeni fisici e chimici o alla struttura delle società umane le vicissitudini della storia. Si cercano gli elementi “giusti” che compongono la struttura, se ne cercano le connessioni e le relazioni, si impara a guardare “in generale” la moltitudine dei fatti particolari.

O, ancora per esempio, si potrebbero individuare relazioni di causa e effetto nei fenomeni che cambiano ed evolvono nel tempo, sostituendo le classificazioni animali con la dinamica evolutiva in biologia e gli elenchi dei vari tipi di paesaggio con la successione degli eventi geologici che li hanno determinati in geografia. Così si possono immaginare i “trasferimenti di energia” nei fenomeni che accadono dentro o fuori il laboratorio di scienze, individuando le relazioni che li spieghino in modi comprensibili.

La comunicazione
La didattica si fonda certamente su contenuti di base ma anche, essenzialmente, sulle modalità con cui questi vengono comunicati: come sosteneva McLuan non pochi anni fa “il mezzo è il messaggio”. L’esigenza di cambiare la attuale metodologia didattica  si fonda anche sui contributi delle  moderne scienze della comunicazione, che suggeriscono come dei nuovi “mezzi” possano meglio sostenere dei nuovi “messaggi”. Ma nuovi mezzi non significano necessariamente o soltanto tecnologie informatiche. Nella scuola di oggi è “nuovo” (tra moltissime virgolette!) far discutere i ragazzi su differenti argomenti, sfidarli a esporsi e a esporre le proprie idee, ascoltarli e fare in modo che si ascoltino reciprocamente, che scelgano modi di studiare più congeniali alle loro capacità, dosando esplicitamente sia le proposte  didattiche utili e interessanti sia quelle, altrettanto necessarie, utili ma noiose. E’ “nuovo” individuare nella quotidianità situazioni problematiche, che possano essere affrontate con modalità diverse, che non impongano soluzioni univoche, che richiedano prove concrete per vedere  con i propri occhi come vanno le cose.

Quindi non si tratta soltanto di sostituire con conoscenze solide e flessibili le “copiature” o le schede che si riempiono frettolosamente sull’eserciziario. La sfida è quella di far crescere, nei ragazzi di oggi, l’interesse e la curiosità per il mondo fuori della scuola, per non disamorarli alla loro vita futura, per non lasciarli scoraggiare davanti al primo intoppo, alla prima difficoltà. Ma il modo in cui la scuola può costruire interesse è ancora tutto da sperimentare, richiede tempi lunghi, tentativi ed errori. Sembra infatti incredibile che una cultura così ricca, coinvolgente, profonda e sofisticata come quella che gli uomini hanno costruito in millenni lasci indifferenti, quando non annoiati o infastiditi, i ragazzi di oggi.

Servirebbe forse, da parte degli insegnanti, un cambiamento di sguardo, una esplorazione critica del loro stesso sapere e dei loro stessi interessi. Se il mezzo è il messaggio, la cultura a cui far crescere i ragazzi dovrebbe apparire ricca e complessa anche a loro, ogni  disciplina dovrebbe rappresentare anche per loro un particolare modo di guardare il mondo, un modo raffinato di accorgersi di certi aspetti specifici, di cogliere certe problematiche, di porsi domande su quello che non si conosce. E dalla sequenza di trattazioni generiche e luoghi comuni, alla base dei moltissimi estenuanti esercizi proposti ai ragazzi, volgere lo sguardo ai ragazzi stessi, scovare i loro interessi per farne nascere di nuovi e di più complessi, sfidandoli non a ripetere nozioni ma a capire fatti. Invitandoli a muovere le mani e la testa, per scoprire idee ed uscire con la propria mente nel mondo, magari tollerando qualche nomenclatura scorretta o qualche definizione impropria. Così, sfruttando la propria cultura e competenza didattica ogni insegnante potrebbe fondare la conoscenza dei ragazzi su solide basi (gli obiettivi di apprendimento) ma rendendole funzionali al vivere oggi e al saper vivere in un vicino futuro.

Maria Arcà è consulente esperto nella stesura delle Indicazioni Nazionali (2012), ricercatore CNR responsabile di  progetti di ricerca sulla educazione scientifica di base.

Credits immagine: woodleywonderworks/Flickr

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