Siamo tutti potenziali carnefici

Piero Bocchiaro
Psicologia del male
Laterza Bari 2009, pp. 128, euro 12,00

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Chi è ancora convinto che il mondo si divida in buoni e cattivi sarà costretto a ricredersi: analizzando quattro fatti di cronaca più o meno recente in parallelo a esperimenti di psicologia sociale, Piero Bocchiaro ci suggerisce come il male possa essere più vicino di quanto non ci piaccia pensare, annidato da qualche parte dentro di noi, magari nascosto ma pronto a venire allo scoperto nelle situazioni più inaspettate. Con uno stile efficace e accessibile anche ai profani, l’autore ci accompagna in un sorprendente viaggio alla scoperta della crudeltà umana, dimostrando, pagina dopo pagina, una verità ostica da digerire: ciascuno di noi è un potenziale carnefice. Si, perché la violenza estrema non deriva da un’anomalia individuale o da un tratto di personalità, ma è il risultato di processi psicologici che avvengono in persone normali in circostanze eccezionali. «Sembra che la malvagità non sia appannaggio esclusivo di individui devianti o pazzi, ma che chiunque possa infierire contro un altro essere umano. Alla classica dicotomia tra bene e male, che ci era sicuramente più congeniale perché ci permetteva un orientamento facile negli intrecci della morale» l’autore preferisce un’ottica situazionista, cioè una spiegazione del comportamento imperniata su variabili di contesto piuttosto che su presunte disposizioni permanenti del soggetto agente. Ma nessuna concessione al giustificazionismo. Spiegare non è assolvere, per quanto la comprensione possa aprire le porte al perdono.  

Il libro è articolato in sezioni “Quando l’obbedienza è distruttiva: il caso Eichmann” è un aggiornamento essenziale al lavoro già svolto a suo tempo da Hannah Arendt su Eichmann, l’ufficiale delle SS responsabile dello sterminio di sei milioni di ebrei. Qui scopriamo, non senza una certa inquietudine, che la condotta di Eichmann rappresenta la regola piuttosto che l’eccezione: le ricerche dimostrano infatti che un qualsiasi individuo stretto tra la regola d’obbedienza e il principio di autorità non esiterà a somministrare scosse elettriche d’intensità sempre maggiore a una vittima innocente. Di qui la denuncia dei pericoli insiti in una società burocratica in cui l’individuo tende a delegare all’autorità e a perdere il senso del proprio agire.

Spunto della seconda sezione è il delitto Genovesi, perpetrato a New York una notte del 1964 sotto gli occhi di trentotto testimoni inerti. È un copione che si ripete anche nel nostro paese: per strada una donna viene aggredita e nessuno interviene; la notizia provoca scalpore e indigna le coscienze. Eppure pochi si interrogano su che cosa abbia potuto pensare o provare chi si è trovato coinvolto. Una negligenza che spiega anche alcuni pregiudizi diffusi, primo tra tutti quello che i luoghi più frequentati sarebbero anche i più sicuri. Al contrario di quanto si possa pensare, in effetti, la probabilità di ricevere aiuto in caso di pericolo è maggiore in una strada semideserta che non in una via affollata, e ciò perché gli eventuali soccorritori sono inibiti dall’idea che qualcun altro interverrà al suo posto. A entrare in gioco è la diffusione della responsabilità, una delle variabili situazionali che dovremmo imparare a riconoscere se vogliamo diminuire il rischio di agire contro le nostre convinzioni morali o di non agire affatto in situazioni di emergenza. Tra le variabili situazionali che immettono sul sentiero della malvagità va almeno segnalata, per il suo chiamarci direttamente in causa, “l’etichettamento eufemistico” per cui per esempio una guerra viene ribattezzata “intervento umanitario” o “missione di pace”. Ci viene in mente qualcosa? Non condividiamo forse almeno in parte anche noi la responsabilità di una generale inazione?

Anche la finestra successiva inizia con un ritmo da cronaca che c’introduce stavolta alla tragedia dell’Hysel, il massacro perpetrato dagli hooligans alla finale della Coppa dei Campioni dell’85. Sotto il riflettore dello psicologo sociale entra la massa che spoglia l’individuo della propria identità facendogli perdere cognizione di azioni e responsabilità. Non succede soltanto ai tifosi, ma anche alle più insospettabili, brave ragazze, che se poste in condizioni di anonimato sono pronte a godere nell’infliggere sofferenze gratuite a persone contro cui non hanno alcun motivo di acrimonia. Ricordando Pirandello, Freud e Le Bon dobbiamo allora ammettere che non siamo uno ma centomila, che ospitiamo dentro di noi impulsi distruttivi e che siamo pronti ad annegare la nostra coscienza personale nel mare della folla. L’invito è allora a imparare a conoscersi. Soltanto familiarizzandoci con il nostro lato oscuro darci la possibilità di lavorare per l’elevazione della coscienza morale.

L’ultimo caso che viene analizzato è anche il più recente: le carceri di Abu Gharib. Era l’aprile del 2004 quando le televisioni di tutto il mondo diffusero notizia della galleria di orrori di cui si erano resi responsabili i soldati americani infliggendo ogni genere di tortura ai prigionieri iracheni. L’autore ne fu turbato, ma non sorpreso, dal momento che già trent’anni prima un esperimento dell’università di Standford aveva rivelato che genere di azioni turpi possono essere indotte da un contesto carcerario. Più sorpreso sarà il lettore di scoprire le condizioni di vita degli agenti penitenziari che lavorano a pieno ritmo tra cadaveri e spazzatura, dormono con i topi in celle di due metri per tre e sono continuamente esposti agli assalti dei detenuti. Se si può essere al contempo aguzzini e buoni padri di famiglia è perché la malvagità è provocata da una situazione ed è propria dell’(in)azione, non dell’individuo che la compie. Per fortuna le situazioni non rivelano solo i nostri lati più oscuri, e cosi come non occorre essere perversi per compiere azioni perverse, neppure occorre essere eroi per compiere azioni eroiche. Arrivati alla fine del libro possiamo tirare un sospiro di sollievo. E prepararci a nuove scoperte…

Fratello minore de La banalità del male della Arendt, il libro è insieme una requisitoria sulla morale tradizionale e un inno all’etica della responsabilità di weberiana memoria. Sfata più di un luogo comune, istiga molti, salutari dubbi e ci obbliga a rivedere il nostro giudizio su noi stessi e sugli altri.  

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