Sorvolando il Polo Sud

L’Antartide è un continente che si estende per oltre 13 milioni di chilometri quadrati – per confronto, si pensi che l’Europa ha un’estensione di soli 9.900.000 chilometri quadrati, e l’Italia di circa 300.000 – oltre il 99 per cento dei quali sepolti sotto circa 30 milioni di chilometri cubi di ghiaccio. Si tratta di un territorio in gran parte inesplorato che l’areogeofisica, una disciplina che fornisce accurate stime dello spessore delle calotte glaciali e rivela informazioni sulla natura del substrato geologico, contribuisce a svelare.

L’Antartide è un barometro sensibile dei cambiamenti climatici globali: se le calotte glaciali che la ricoprono dovessero scomparire per effetto dei cambiamenti climatici globali, infatti, ne risulterebbe un innalzamento del livello medio del mare di circa 70 metri, con implicazioni sociopolitiche, economiche ed ecologiche catastrofiche. La maggior parte degli esperti ritiene improbabile un collasso completo delle calotte glaciali antartiche. Tuttavia, ci sono già chiari indizi di significativi cambiamenti in atto, in modo particolare nelle calotte dell’Antartide Occidentale [1]. Inoltre, mutamenti di notevole rilevanza si riscontrano in parte della calotta glaciale della Groenlandia [2]. Il rapporto del Comitato intergovernativo per lo studio dei cambiamenti climatici (IPCC) pubblicato il 2 febbraio 2007 ha però messo in evidenza come sia difficile calcolare precisamente il contributo dei rapidi cambiamenti nel flusso glaciale in Antartide e in Groenlandia al futuro innalzamento del livello medio del mare (1). Questa incertezza rende ancora più urgente lo studio delle regioni polari, nell’ottica di uno sviluppo futuro sostenibile per il nostro pianeta. Il continente antartico riveste quindi un ruolo sempre più rilevante in quello che viene definito dagli scienziati il “sistema Terra”.

Il British Antarctic Survey (BAS) è uno dei principali centri scientifici internazionali impegnati in Antartide che studia fenomeni regionali e globali rilevanti per la conoscenza del “sistema Terra”. Con sede a Cambridge (Inghilterra), il centro ha oltre 450 dipendenti, tra cui ricercatori, ingegneri, logistici, e amministrativi; gestisce cinque basi, due navi e cinque aerei. La cooperazione internazionale è di fondamentale importanza per realizzare la ricerca antartica di avanguardia e rappresenta uno dei capisaldi del Trattato Antartico firmato da tutte le principali nazioni che operano in Antartide. La ricerca del BAS si fonda su oltre 120 collaborazioni internazionali, tra le quali anche svariate con l’italiano Progetto Nazionale delle Ricerche in Antartide (PNRA).

Il BAS ospita anche l’ufficio di coordinamento dell’Anno Internazionale Polare (IPY), iniziato nel febbraio del 2007. L’IPY coinvolge oltre 50.000 persone di 63 diverse nazioni e include oltre 200 progetti multidisciplinari di ricerca tra Artide e Antartide. L’IPY si prefigge di approfondire la conoscenza delle regioni polari e dei suoi cambiamenti in atto; di creare nuovi strumenti per l’esplorazione e il monitoraggio; di promuovere nuove collaborazioni internazionali; di ispirare una nuova generazione di scienziati polari; di fare conoscere più largamente la ricerca polare nella società di oggi e futura.

Illustreremo qui uno dei metodi che il BAS utilizza per l’esplorazione al di sotto delle calotte di ghiaccio dell’Antartide: l’aerogeofisica. Il nostro viaggio ci porterà a esplorare diverse aree del continente antartico e alla scoperta di alcuni dei suoi misteri dell’Antartide. Nello specifico, vedremo le applicazioni recenti dell’aerogeofisca, e due esempi di collaborazioni internazionali in atto (con gli USA e con l’Italia). Infine, l’ultima parte descriverà un progetto futuro di esplorazione multinazionale nell’ambito dell’ Anno Polare Internazionale.

L’aerogeofisica
L’aerogeofisica è un metodo utilizzato in tutto il mondo per l’esplorazione geologica regionale, per esempio per l’individuazione di aree ricche di risorse naturali (come gli idrocarburi e le risorse minerarie), e come strumento per l’analisi dei rischi naturali (sismico, vulcanico ecc.) e antropici. L’aerogeofisica consente una copertura di aree enormi a costi più sostenibili rispetto ad altri metodi di prospezione geofisica (come quella sismica). In zone con copertura (sia essa data dalla vegetazione, dal ghiaccio, o da rocce) l’aerogeofisica rappresenta spesso uno dei pochi metodi di prospezione regionale utilizzabili.

In Antartide la ricerca aerogeofisica iniziò dopo l’Anno Geofisico Internazionale del 1957-58. Ma fu negli anni Settanta che gli studi assunsero una grande rilevanza grazie a una collaborazione internazionale tra lo Scott Polar Research Institute di Cambridge e la National Science Foundation (NSF) statunitense e all’utilizzo di un grosso aereo come piattaforma, un C-130, in grado di volare per oltre 3.000 chilometri in una sola missione (le cui vicende sono illustrate da Simone Turchetti in un altro articolo in questo dossier). Ancora oggi quei rilievi costituiscono una base osservazionale irrinunciabile, grazie alla quale è stato possibile per la prima volta capire le dimensioni delle calotte di ghiaccio in Antartide e individuare le principali strutture geologiche sepolte del continente.

Anche i russi negli anni Settanta cominciarono a utilizzare un aereo (IL-41) per esplorare l’Antartide Orientale. A partire dal 1973 sino al 1987 il BAS collaborò estensivamente con l’NSF per esplorare l’area della Penisola Antartica (Fig. 1), nell’Antartide Occidentale, partendo da una zona dove ancora oggi mantiene la sua base principale (Rothera). Con la Guerra Fredda ormai alle spalle, negli anni Novanta la ricerca aerogeofisica del BAS continuò, in modo ridotto sulla Penisola, estendendosi verso l’Antartide Orientale grazie a una nuova collaborazione internazionale con gli USA. Sull’onda del successo conseguito negli anni Novanta da studi americani integrati di glaciologia e di geologia [3-4] condotti grazie all’aerogeofisica, e sotto la spinta dalla crescente consapevolezza politica e sociale degli effetti dei cambiamenti climatici globali sull’Antartide, il BAS ha in questi ultimi anni notevolmente intensificato la sua ricerca aerogeofisica. Il BAS ha anche coordinato la compilazione di tutti i dati internazionali (inclusi quelli italiani) di spessore del ghiaccio e delle anomalie magnetiche utilizzati per studi geologici e geofisici in Antartide [5-6]

Metodologie
Il BAS possiede attualmente due piattaforme per la ricerca aerogeofisica in Antartide: un De Havilland Twin Otter, un aereo leggero munito di sci (in grado di operare da piste su ghiaccio), e un de Havilland Dash-7, un aereo più grande senza sci. Il Twin Otter è equipaggiato con un sistema radar, sensori magnetici e gravimetrici, mentre il Dash-7 non ha il radar. Con il primo è possibile fare circa mille chilometri in un volo (in assetto di misura), mentre il secondo consente di fare voli più lunghi, fino a 2.200 chilometri.

Il metodo radar si basa sull’emissione di onde elettromagnetiche, e il sistema progettato dal BAS utilizza una frequenza di 150 MHz che consente di misurare spessori notevoli di ghiaccio, anche oltre i quattro chilometri. Misurando il tempo di propagazione dell’onda riflessa è possibile stimare accuratamente lo spessore del ghiaccio (con precisione metrica), descrivere la morfologia del substrato roccioso, e anche rilevare la stratificazione all’interno della calotta. Laddove siano disponibili perforazioni profonde della calotta (come a Vostok, Dome Concordia, e in Dronning Maud Land) [7-9] è possibile stimare l’età degli strati di ghiaccio e tracciare una stratigrafia, in modo simile a quanto viene fatto con il metodo sismico. Si tratta di dati particolarmente importanti per gli studi di paleoclima e per le ricerche che riguardano la dinamica e l’evoluzione della calotta glaciale. In questo modo, inoltre, è possibile anche individuare i laghi subglaciali. Il metodo aeromagnetico è passivo e si basa su misure molto accurate del campo magnetico terrestre. Si utilizzano dei magnetometri al cesio che forniscono misure con un grado di precisione dell’ordine di 10-3 nT. Per gli scopi della prospezione (sia essa in Antartide o in altra parti del mondo) è “l’anomalia magnetica” che interessa, ovvero la perturbazione, dovuta alla presenza di rocce magnetiche nella crosta terrestre, del campo magnetico. In generale, le rocce ultramafiche e mafiche (per esempio gabbri, basalti) sono più magnetiche delle rocce femiche (graniti ecc.) o delle rocce sedimentarie, anche se ci sono eccezioni. Le anomalie a più piccola lunghezza d’onda corrispondono alle sorgenti geologiche più superficiali, mentre quelle a maggiore lunghezza d’onda sono causate da corpi più profondi. L’ampiezza delle anomalie e la loro lunghezza d’onda consente quindi di stimare profondità, geometria e disposizione dei corpi geologici. Il metodo aeromagnetico viene utilizzato per individuare faglie, vulcani, intrusioni e per stimare lo spessore dei bacini sedimentari subglaciali. Per l’interpretazione geologica del substrato roccioso sotto il ghiaccio si utilizzano le “segnature magnetiche”: si osservano le anomalie dove affiorano certi tipi di rocce e se ne studiano le caratteristiche; poi si estrapola l’interpretazione alle aree sepolte dal ghiaccio. Tuttavia, in Antartide questo non è sempre possibile perché enormi regioni possono essere sepolte dal ghiaccio. In questo caso si utilizzano spesso confronti con segnature magnetiche regionali osservate in altre parti del mondo.

Quello aerogravimetrico è un altro metodo passivo e si basa su misure del campo gravimetrico. Si utilizzano degli strumenti che misurano le accelerazioni di gravità, generalmente strumenti marini modificati per poter sopportare le notevoli accelerazioni dell’aereo in volo. A differenza del metodo radar e del metodo aeromagnetico, in uso in Antartide da oltre quarant’anni, il metodo aerogravimetrico ha trovato una diffusa applicazione nel continente solo a partire dagli anni Novanta. Il motivo è che per ottenere dati aerogravimetrici precisi è necessario conoscere molto accuratamente sia la posizione sia le accelerazioni dell’aereo, accuratezza che si è resa possibile solo con l’avvento del Global Positioning System (GPS). Installando stazioni base GPS a terra oltre che sull’aereo e utilizzando tecniche di elaborazione dei dati GPS, oggi è possibile determinare la posizione dell’aereo con precisione centimetrica, fondamentale per poter ottenere dei dati aerogravimetrici sensati. Nonostante i recenti avanzamenti del GPS i dati aerogravimetrici devono comunque essere filtrati perché il segnale è dominato dalle accelerazioni dell’aereo (che possono avere ampiezze 10.000 volte maggiori delle anomalie gravimetriche!) che rendono lo strumento meno sensibile ai dettagli geologici superficiali. Le anomalie aerogravimetriche consentono si stimare la distribuzione della densità nella crosta terrestre. In generale, le rocce mafiche sono più dense di quelle femiche, che a loro volta sono più dense dei sedimenti. Il metodo fornisce quindi spesso informazioni complementari a quelle aeromagnetiche e aiuta nella caratterizzazione geologica su scala regionale dell’Antartide.

Una caratteristica importante del metodo aerogravimetrico è quella di consentire anche la stima di un parametro fondamentale, lo spessore della crosta terrestre, a causa del contrasto di densità tra le rocce della crosta e quelle del mantello sottostante (che sono più dense). Laddove possibile le stime dello spessore crostale derivate dall’aerogravimetria vengono confrontate con le misure più accurate rilevate con metodo sismico. Il metodo aerogravimetrico consente anche di determinare la rigidità della litosfera, e questo è importante, per esempio, per studiare i processi di sollevamento delle Catene in Antartide. Più recentemente il metodo aerogravimetrico è stato anche adottato per stimare la profondità dei laghi subglaciali [10].

Processi geologici globali
Ci sono due processi della tettonica globale delle placche [11] che sono fondamentali per la comprensione dell’evoluzione geologica in Antartide (Fig. 4). Il processo di rifting, che porta i continenti a spaccarsi e in alcuni casi a dividersi tra loro, e il processo di subduzione, che genera nuova crosta continentale in corrispondenza degli archi magmatici con conseguente accrescimento dei continenti. Circa 150 milioni di anni fa l’Antartide ha cominciato a dividersi dagli altri continenti che formavano il super-continente Gondwana. Prima di allora l’Antartide formava un pezzo chiave del Gondwana ed era attaccato a Sud America, Sud Africa, India, Australia e Nuova Zelanda. Il processo di break-up (letteralmente, di rottura) del Gondwana è un processo globale che ha determinato l’isolamento del continente antartico, che da trenta milioni di anni risulta completamente circondato dall’Oceano Meridionale, e oggi è quasi completamente coperto di ghiaccio.

Diverse sono le nazioni che grazie a programmi di ricerca geologica e geofisica condotti in Antartide hanno studiato i processi di break-up del Gondwana e quelli di accrescimento del continente antartico. Il BAS, nel periodo compreso tra il 2000- 2005, ha attivato un programma di ricerca multidisciplinare, Antarctic Dynamics in the Global Plate System (Geodinamica antartica nel sistema delle placche), che prevede l’uso di una serie di metodologie geologiche (quali la geologia strutturale, la geocronologia, la petrografia, la geochimica) e di metodi geofisici (come la geofisica marina e l’aerogeofisica). Due sono le finalità principali di questo programma: ottenere una migliore comprensione dei processi responsabili delle prime fasi di breakup del Gondwana (circa 180 milioni di anni fa), prima che si formasse l’oceano tra l’Antartide e il Sud dell’Africa (circa 150 milioni di anni fa); e analizzare i processi responsabili dell’accrescimento della Penisola Antartica nel periodo compreso tra 180 milioni e circa 100 milioni di anni fa.

In questo ambito sono stati eseguiti due rilievi aerogeofisici. Il primo, realizzato con il Twin Otter del BAS, si è svolto durante la campagne 2001- 2002 in Dronning Maud Land (Antartide Orientale), una regione che circa 180 milioni di anni fa, come indicano diverse ricostruzioni del Gondwana, era adiacente (perché geologicamente simile) al Sud Africa. Lo studio geologico di quest’area è difficile a causa della presenza di un enorme ghiacciaio (Jutulstraumen Glacier) che impedisce l’osservazione diretta delle rocce. I nuovi dati radar indicano che sotto questo ghiacciaio esiste una valle dove il substrato roccioso raggiunge profondità anche di 1.500 metri sotto al livello del mare mentre le montagne sui fianchi della valle raggiungono quote di oltre 2.800 metri. Valli simili sono ben note, per esempio, in Africa, dove formano la celebre struttura geologica di rift dell’Africa Orientale, attiva da circa 25 milioni di anni. I nuovi dati aeromagnetici e aerogravimetrici rilevati dal BAS hanno rilevato l’esistenza di un rift continentale sepolto sotto al ghiacciaio Jutulstraumen [12- 13], confermando così un’ipotesi avanzata da alcuni geologi sud-africani che avevano esplorato la regione negli anni Novanta. Rocce affioranti sui fianchi del rift suggeriscono che il processo di rifting nell’area dello Jutulstraumen sia iniziato circa 180 milioni di anni fa e che costituisca quindi l’inizio del break-up del Gondwana, forse legato alla presenza di una plume (pennacchio) nel mantello. I dati derivanti dalla ricerca aerogeofisica hanno riservato una grossa sorpresa: questo rift non somiglia a quelli coevi dell’adiacente Sud dell’Africa, che contengono enormi volumi di rocce magmatiche associate al processo di rifting. La causa di questa differenza rimane in parte un mistero. Nuovi rilievi aerogeofisici sono stati eseguiti a partire dal 2003 da parte di enti di ricerca tedeschi per approfondire ulteriormente la comprensione dei processi di break-up del Gondwana e i differenti effetti che si osservano in Africa e in Antartide.

Il secondo rilievo aerogeofisico è stato realizzato nel 2002-2003 grazie a Dash-7 in Terra di Palmer, un’area della Penisola Antartica. Quest’ultima è una delle regioni meglio studiate dal punto di vista geologico, sia perché molte rocce affiorano dal ghiaccio, sia perché il BAS ha una forte infrastruttura logistica proprio in questa area. Gli studi geologici e geofisici condotti a partire dagli anni Settanta hanno portato a ritenere la Penisola Antartica parte di un sistema di subduzione di crosta oceanica dell’Oceano Paleo-Pacifico sotto al super-continente Gondwana. I risultati di studi recenti dei geologi del BAS suggeriscono che, per quanto il modello generale di un processo di subduzione sia corretto, la Penisola (lunga quasi 1.500 e larga fino a 300 chilometri) sia costituita da diversi blocchi tettonici, in modo simile a quanto avviene in Nuova Zelanda o nella Cordigliera dell’America del Nord, dove questi blocchi prendono il nome di terranes. I nuovi dati aerogeofisici mostrano che la struttura principale che costituisce la Penisola Antartica, l’arco magmatico, non è uniforme. Nella Terra di Palmer i nuovi dati aerogravimetrici e aeromagnetici mostrano inequivocabilmente che l’arco è composto da due segmenti ben distinti dal punto di vista geofisico. Una segmentazione dell’arco così netta si osserva, per esempio, in California, dove è stato suggerito che l’arco più esterno possa essere “esotico” rispetto all’America del Nord, che derivi cioè da un luogo lontano. Per analogia, questa ipotesi è stata proposta anche per la Penisola Antartica [14]. Gli studi geologici in quest’area, nell’ambito del programma di ricerca 2005- 2010, potranno confermare, smentire o precisare questa nuova ipotesi derivata dalla ricerca aerogeofisica.

Interazioni tra geologia e dinamica glaciale
Classicamente si ritiene che circa il 90 per cento del flusso glaciale derivante dalle calotte antartiche defluisca a partire da un numero ridotto di ghiacciai noti come ice stream (torrenti di ghiaccio) e da outlet glacier (ghiacciai di sbocco), alcuni dei quali in Antartide raggiungono la velocità di due chilometri all’anno, mentre i bacini di drenaggio dei ghiacciai sarebbero relativamente stabili e inattivi. Le osservazioni più recenti (per esempio da satellite) mostrano invece che i bacini di drenaggio di questi ghiacciai sono caratterizzati da complessi sistemi di affluenti (tributary) che penetrano anche fino a 1.000 chilometri all’interno del continente antartico. Questo è importante perché significa che eventuali forze esterne, come quelle climatiche, possono causare cambiamenti dinamici della calotta di notevole rilevanza anche su scala temporale ridotta e su aree molto estese [15]. Tra gli ice stream meglio studiati si annoverano quelli della calotta dell’Antartide Occidentale, che defluiscono nell’area del Ross Ice Shelf. Le ricerche aerogeofisiche condotte negli anni Novanta dagli americani nell’area di questi ice stream hanno consentito di analizzare in che modo la geologia sublglaciale influenza la dinamica glaciale, ipotizzando che in quelle aree le valli di rift con uno spesso riempimento sedimentario siano sepolte sotto gli ice strem e suggerendo un’influenza tettonica e litologica che potrebbe favorire il rapido flusso glaciale sovrastante e modulare la dinamica glaciale [4]. Inoltre, è stata ipotizzata l’esistenza di vulcani subglaciali attualmente attivi o che lo sono stati di recente associati al processo di rifting. Questi vulcani causerebbero un elevato flusso di calore alla base dei ghiacciai, generando acqua che, a sua volta, diminuirebbe l’attrito tra ghiaccio e substrato roccioso, favorendo ulteriormente il flusso glaciale [3].

Al contrario, praticamente nulla è noto sulla relazione tra substrato geologico e i complessi sistemi ice stream/tributary della calotta glaciale dell’Antartide Orientale. Durante la campagna 2001-2002 il BAS ha effettuato un rilievo aerogeofisico nella Terra di Coats che ha fornito le prime evidenze a proposito della geologia subglaciale sotto agli affluenti glaciali del ghiacciaio Slessor. I dati aeromagnetici sono stati elaborati secondo dei modelli mostrando così l’esistenza di un esteso bacino sedimentario direttamente sotto all’affluente nord del ghiacciaio Slessor [16]. Per poter spiegare la dinamica glaciale in quest’area e la presenza di un substrato roccioso sedimentario i modelli di flusso glaciale ipotizzano che sia presente uno strato basale che fornisca poco attrito. Per la prima volta si può quindi suggerire che la distribuzione di possibili bacini sedimentari subglaciali potrebbe essere una chiave anche per comprendere meglio la dinamica glaciale di alcuni affluenti dell’Antartide Orientale.
Gli studi satellitari e a terra indicano che l’area della calotta glaciale antartica che sta cambiando in modo più significativo in questi anni è la regione della Baia di Amundsen in Antartide Occidentale. Tanto che gli esperti sono sempre più preoccupati di come potrà rispondere questa parte della calotta glaciale ai cambiamenti climatici. Un collasso di quest’area in conseguenza dell’aumento della temperatura media globale si tradurrebbe in un innalzamento del livello medio del mare di cinque metri. La sola area dei ghiacciai che defluiscono nella Baia di Amundsen potrebbe contribuire a un innalzamento di 1,5 metri del livello del mare. Grandi ghiacciai come il Pine Island Glacier e il Thawites Glacier si stanno sciogliendo, assottigliando, accelerando, e si stanno ritirando con una velocità tale da rendere difficile imputare tale mutamento esclusivamente a fenomeni naturali. Il lento processo di deglaciazione in questa area (e in altre aree dell’Antartide) è iniziato dopo l’ultimo massimo glaciale (circa 20.000 anni fa). Tuttavia, la velocità con cui si sta realizzando sembra essere circa 20 volte maggiore di quanto si sia osservato nella recente storia evolutiva della calotta (2). L’ipotesi attualmente più accreditata è che all’origine di questi cambiamenti ci sia l’innalzamento della temperatura di questa parte dell’Oceano Meridionale [1].

Al fine di fornire nuovi parametri per poter elaborare un modello della risposta ai cambiamenti climatici di questa parte particolarmente vulnerabile della calotta glaciale, il BAS ha collaborato con l’Università del Texas per effettuare la più estesa esplorazione aerogeofisica effettuata sinora nella regione. Durante la campagna Antartide 2004-05 sono stati raccolti nuovi dati aerogeofisici relativi a un’area di oltre 500.000 chilometri quadri. Sono stati utilizzati due Twin Otter, uno del BAS e uno americano, entrambi equipaggiati con radar, sensori aeromagnetici e aerogravimetrici. La figura 6 mostra una nuova prospettiva 3D della topografia sotto al ghiaccio, che indica come il ghiacciaio Pine Island scorra in una profonda e stretta valle subglaciale e possieda svariati affluenti. Il ghiacciaio Thwaites, invece, scorre in una depressione subglaciale molto più ampia e possiede affluenti con una disposizione a raggiera che defluiscono nel ghiacciaio principale. La differente morfologia sublglaciale suggerisce che la risposta dei due ghiacciai ai cambiamenti climatici sarà verosimilmente diversa: Pine Island probabilmente continuerà ad accelerare, ma essendo confinato in una stretta valle è probabile che i cambiamenti possano avere conseguenze più locali; il ghiacciaio Thwaites, invece, potrebbe essere a maggior rischio poiché il presente trend che lo vede allargarsi potrebbe continuare in futuro con conseguenze regionali nettamente più marcate. Profonde valli subglaciali, note con il nome di Bacino Subglaciale di Byrd e Bacino Sublglaciale di Bentley, collegano i due bacini di drenaggio dei ghiacciai Pine Island e Thwaites. Attualmente il ghiaccio non scorre lungo l’asse di questi bacini subglaciali, ma la possibilità che si stabilisca un collegamento tra i rispettivi bacini esiste, rendendo quest’area ancora più vulnerabile ai cambiamenti climatici futuri. La nuova topografia subglaciale è stata pubblicata nel 2006 [17]. Data l’importanza cruciale di questa regione per la stabilità della calotta glaciale in risposta ai cambiamenti climatici, tutti i nuovi dati radar sono stati pubblicati su un sito web (3) in modo che l’intera comunità di glaciologi e di esperti di modelli climatici per l’Antartide possa approfondire gli studi sulla stabilità di questo settore della calotta. I ricercatori cercheranno così di migliorare le previsioni sui possibili contributi dei ghiacci antartici all’innalzamento del livello medio del mare globale [1].

I dati aeromagnetici e aerogravimetrici raccolti durante la campagna sono invece attualmente oggetto di studio nell’ambito di un progetto internazionale congiunto inglese-americano e tedesco nel contesto dell’IPY. Il titolo del progetto è “Geodinamica del rift dell’Antartide Occidentale”. L’ipotesi che stiamo testando con i nuovi dati aerogeofisici è quella per cui, in analogia con quanto riscontrato negli anni Novanta dagli americani nell’area dei Ross Ice Stream, anche l’area della Baia di Amundsen si poggi su strutture geologiche di rift. Capire meglio l’estensione delle possibili strutture di rift in quest’area, particolarmente a rischio per la stabilità futura della calotta, è di fondamentale importanza per poter comprendere in che modo in quest’area la geologia influisce sul flusso glaciale.

Paleoclima e stabilità della Calotta Orientale
Durante il prossimo secolo le emissioni di gas serra causeranno un aumento della temperatura globale (almeno 3°C) come non è stata osservato sulla Terra per milioni di anni. Come risponderanno le calotte glaciali all’innalzamento della temperatura? Dal momento che la maggior parte della calotta poggia su un substrato roccioso che sta sotto il livello del mare, svariati studi si sono occupati della stabilità della calotta glaciale dell’Antartide Occidentale in risposta ai cambiamenti climatici. Questo tipo di calotta detta “marine ice sheet” è infatti intrinsecamente instabile. La calotta glaciale dell’Antartide Orientale viene invece ritenuta molto più stabile perché per la maggior parte essa poggia su un substrato roccioso che sta al di sopra del livello del mare.

In generale, si pensa che l’enorme calotta glaciale dell’Antartide Orientale debba considerarsi come un “mitigatore” del livello medio del mare futuro [1]. In effetti, gli studi da satellite indicano che mentre i ghiacciai dell’Antartide Occidentale si stanno ritirando (alcuni in modo sostanziale come si è visto per l’area della Baia di Amundsen) lo spessore della calotta dell’Antartide Orientale sta aumentando a causa dell’aumento delle precipitazioni nevose [1]. Ci sono però delle eccezioni. Nelle regioni costiere dell’Antartide Orientale, nella zona antistante profondi bacini subglaciali (come il Bacino di Wilkes e il Bacino di Aurora), i recenti dati da satellite suggeriscono che sia in atto un possibile assottigliamento della calotta [1]. Che siano questi i primi indizi di cambiamenti futuri anche in Antartide Orientale? Che cosa ci suggerisce il passato? La stabilità della calotta glaciale dell’Antartide Orientale nel passato geologico recente è oggetto di un acceso dibattito scientifico da oltre venti anni. La maggior parte dei ricercatori ritiene che la calotta glaciale dell’Antartide Orientale si sia formata circa 35 milioni di anni fa sulle montagne e sugli altipiani dell’Antartide Orientale. Queste calotte locali si sarebbero poi espanse durante un periodo geologico indicato come Neogene (iniziato circa 23 milioni di anni fa) e, infine, si sarebbe costituita l’enorme calotta che vediamo oggi. Tuttavia, permane una notevole controversia a proposito del momento in cui sarebbe avvenuto questo fenomeno. Alcuni ricercatori, detti della scuola degli “stabilisti”, ritengono che circa 14 milioni di anni fa si sarebbe formata una calotta stabile, mentre i cosiddetti “dinamisti” ritengono che le dimensioni della calotta dell’Antartide Orientale sarebbero variate notevolmente durante i periodi caldi dell’evoluzione paleoclimatica sino a circa tre milioni di anni fa.

Perché è importante questo dibattito oggi? È semplice: il passato può essere la chiave per il futuro. Se la calotta dell’Antartide Orientale è rimasta stabile durante i periodi caldi del recente passato geologico allora si può ritenere che non sia necessario essere allarmisti per il suo futuro. Se, al contrario, parti della calotta glaciale dell’Antartide Orientale sono collassate quando il paleoclima era simile a quello che ci aspetta in futuro, allora gli allarmismi non sarebbero poi così ingiustificati. Alcune simulazioni paleoclimatiche effettuate con i supercomputer nell’Università di Reading in Inghilterra e grazie ai modelli della calotta glaciale sviluppati dal BAS indicano che la calotta glaciale dell’Antartide Orientale potrebbe essere stata molto più dinamica di quanto si è spesso pensato. Alcuni di questi modelli suggeriscono che, nel recente passato geologico, un terzo della calotta glaciale dell’Antartide Orientale potrebbe essere scomparsa durante i periodi caldi. Questo corrisponderebbe a un innalzamento del livello medio del mare globale di quasi venti metri! Ma possiamo crederci? I problemi legati a modellizzazioni del genere sono molteplici, ma tra quelli fondamentali possiamo annoverare la qualità dei dati che viene immessa nei modelli e la necessità di validare le previsioni dei modelli con i dati geologici. Il processo di modellizzazione di scenari paleoclimatici e paleoglaciologici necessita innanzitutto di una buona conoscenza della topografia sublglaciale, e come si è visto precedentemente per l’Antartide Occidentale anche la conoscenza del substrato geologico sotto alla Calotta Orientale potrebbe giocare un ruolo importante per comprendere meglio la dinamica glaciale.

Durante la campagna Antartica 2005-2006 il BAS ha collaborato con i ricercatori italiani del Progetto Nazionale delle Ricerche in Antartide (in particolar modo con l’Università di Genova) per realizzare una nuova campagna aerogeofisica sulla Calotta dell’Antartide Orientale mirata a esplorare la topografia e la geologia subglaciale del Bacino di Wilkes, uno dei più grandi bacini subglaciali noti sinora nell’area retrostante alla Catena Transantartica. Sono stati effettuati oltre settanta voli utilizzando il Twin Otter del BAS su un’area con una estensione pari a due volte e mezza l’Italia. Si tratta del rilievo più esteso eseguito sinora dal BAS, realizzato solo grazie all’enorme supporto da parte italiana. Uno degli obiettivi fondamentali di questo progetto (che durerà fino al 2010) è quello di fornire nuove indicazioni sulla topografia subglaciale nell’area sotto alla calotta glaciale (e sulle strutture geologiche sepolte) che verranno immesse nei modelli paleoclimatici, fornendo così nuove previsioni sulla stabilità della calotta glaciale durante i periodi caldi del Neogene [18].

I laghi subglaciali
Nell’ambito della collaborazione in atto tra il BAS e il PNRA i nuovi dati radar, aeromagnetici e aerogravimetrici verranno anche utilizzati per lo studio dei laghi subglaciali, numerosi nell’area della base italo-francese di Dome Concordia e all’interno del Bacino Subglaciale di Wilkes. Oltre 150 laghi subglaciali sono stati scoperti sinora in Antartide utilizzando il metodo radar [19]. Il più noto è il lago Vostok (dal nome della base Russa), situato nell’Antartide Orientale sotto 4.000 metri di ghiaccio, lungo 250 chilometri, largo 50 chilometri, e profondo fino a 1.200 metri. Questi laghi sono stati oggetto di notevole attenzione anche da parte dei media a causa della scoperta di possibili batteri nel ghiaccio “accreto” formatosi sopra al Lago Vostok, e per le possibili analogie tra questi laghi e l’acqua sotto alla crosta ghiacciata di Europa (un satellite di Giove), che hanno fatto ipotizzare l’esistenza di forme di vita extra-terrestre. Recentemente è stato proposto che alcuni di questi laghi antartici possano essere connessi tra loro da veri e propri fiumi subglaciali [20] e che la dinamica della calotta glaciale sovrastante (e quindi la sua stabilità) possa essere influenzata dalla presenza di grandi laghi subglaciali collegati tra loro [21]. Sulla base di studi geologici effettuati nell’area della Catena Transantartica, alcuni ricercatori ritengono che circa 14 milioni di anni fa ci sarebbero state enormi alluvioni subglaciali, che avrebbero fatto defluire nel Mare di Ross ingenti quantitativi di acqua dolce, modificando l’andamento delle correnti oceaniche, causando così sostanziali cambiamenti paleoclimatici.

Una sfida per l’IPY
Cinquanta anni fa, durante l’Anno Geofisico Internazionale, alcuni ricercatori russi scoprirono un’impressionante catena di montagne alte come le Alpi sotto Dome Argus, il punto più elevato (4.093 metri) della Calotta dell’Antartide Orientale, le Montagne Gamburtsev. Nel 1971-72 i rilievi aerogeofisici condotti dallo Scott Polar e dalla NSF hanno confermato la scoperta. La presenza di questa catena in mezzo all’Antartide Orientale costituisce uno dei più grandi misteri irrisolti della geologia del continente. Normalmente le catene montuose si formano ai margini dei continenti, e sono associate ai processi di subduzione o di collisione. Ci sono anche esempi di montagne alte migliaia di metri legate a fenomeni di rifting nell’Antartide Occidentale, come la Catena Transantartica. Tuttavia, nel caso delle Gamburtsev l’enigma dell’origine della catena rimane aperto. L’Antartide Orientale viene generalmente ritenuta in gran parte un cratone, una parte antica e stabile della crosta, e come tale dovrebbe essere un’area con scarsi rilievi topografici. Processi di subduzione e di collisione nell’Antartide Orientale sono avvenuti circa 500 milioni di anni fa, creando enormi catene. Ma queste catene dovrebbero ormai essere erose, e in effetti ci sono prove che molte catene formatesi in quel periodo geologico lo sono state. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’area delle Gamburtsev possa essere impostata su un hot spot, ovvero un punto caldo del mantello, che potrebbe essere responsabile di un loro sollevamento molto più recente. Un’ipotesi che manca però di dati geofisici a supporto. Nel 2003 su Nature è stato pubblicato un lavoro secondo cui la proto-calotta glaciale dell’Antartide Orientale si sarebbe originariamente formata circa 34 milioni di anni fa sulle montagne Gamburtsev [22], per poi espandersi in diversi milioni di anni e diventare l’attuale calotta. Le montagne Gamburtsev dunque avevano già assunto la configurazione attuale utilizzata in questi modelli, o sono almeno in parte più recenti della formazione della proto-calotta dell’Antartide Orientale?

Modelli glaciologici hanno inoltre suggerito che l’area di Dome Argus potrebbe contenere il ghiaccio più antico del nostro pianeta, forse di età superiore a un milione 200 mila anni. Questo ghiaccio potrebbe fornirci nuove informazioni su come funziona il clima, estendendo ulteriormente nel tempo le informazioni derivate dai precedenti progetti di perforazione della calotta effettuati a Vostok, Dome Concordia e Dronning Maud Land [7-8].

Nell’ambito dell’IPY, durante la campagna Antartide 2008-2009, il BAS collaborerà con scienziati di altre cinque nazioni (USA, Cina, Germania, Giappone, Australia) al fine di effettuare un nuovo rilievo aerogeofisico per esplorare l’area di Dome Argus e le montagne subglaciali Gamburtsev. Gli obiettivi primari sono quello di approfondire l’origine delle montagne subglaciali Gamburstev e di proporre siti per future perforazioni della calotta che potrebbero estendere l’archivio paleoclimatico del nostro pianeta. Le temperature “estive” nell’area di Dome Argus potrebbero attestarsi sui –60°C, e le elevate quote rendono l’aria estremamente rarefatta. Le basi più vicine sono quella cinese e quella statunitense al Polo Sud, che si trovano però a oltre mille chilometri di distanza dall’area del nuovo rilievo aerogeofisico. Non c’è quindi da sorprendersi che la regione non sia più stata oggetto di esplorazione da più di 35 anni! La sfida per l’IPY è aperta!

NOTE
(1) si veda il sito dell’IPCC, www.ipcc.ch.
(2) R.D. LARTER, communicazione personale, 2007.
(3) http://nsidc.org/data/nsidc-0292.html

BIBLIOGRAFIA
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[18] FERRACCIOLI F., JORDAN T., ARMADILLO E., BOZZO E., CORR H., CANEVA G., ROBINSON G., TABACCO I., «Exploring under the East Antarctic Ice Sheet with new aerogeophysical surveys over the Wilkes Sublacial Basin, the Transantarctic Mountains and Dome C», USGS Open File Report, 2007-1047, 2007, 4 pp.
[19] CARTER S.P., BLANKENSHIP D.D., PETERS M.E., YOUNG D.A., HOLT J.W., MORSE D.L., «Radar-based subglacial lake classification in Antarctica», Geochem., Geophys., Geosys., 8, 2007, doi: 10.1029/2006GC001408.
[20] WINGHAM D.J., SIEGERT A., SHEPHERD A., MUIR A.S., «Rapid discharge connects Antarctic Sublglacial lakes», Nature, 440, 2006, pp. 1033-1036.
[21] FRICKER H.A., SCAMBOS T., BINDSCHADLER R., PADMAN L., «An active sublglacial water system in West Antarctica mapped from space», Science, 315, 2007, pp. 1544-1548.
[22] DECONTO R.M., POLLARD D., «Rapid Cenozoic glaciation of Antarctica induced by declining atmospheric CO2», Nature, 421, 2003, pp. 245-249.

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