Terremoti e radon, cosa sappiamo

(Credits: Gianluca Fortunato / Italian Red Cross via Flickr)

I terremoti colpiscono la nostra penisola con tragica regolarità. E ogni volta, complice un’edilizia antisismica lacunosa o assente (che sia per incuria, per dolo o per colpa dell’eccessiva burocrazia), si trasforma in una nuova tragedia. Ma per alcuni, la prevenzione dei terremoti non dovrebbe limitarsi alla costruzione di strutture più resistenti: le scosse infatti si potrebbero prevedere con un ragionevole anticipo, monitorando le emissioni di radon nelle rocce dei territori a rischio.

Questa almeno è la teoria di Giampaolo Giuliani, ex tecnico dei Laboratori nazionali del Gran Sasso venuto alla ribalta ai tempi del terremoto dell’Aquila, quando assicurò di aver previsto il sisma con ragionevole anticipo proprio grazie all’analisi del gas radon emesso lungo la faglia. Immancabile, anche all’indomani del recente terremoto in Italia centrale, Giuliani ha assicurato di aver previsto la catastrofe, postando una serie di grafici “incontrovertibilisulla sua pagina Facebook, che mostrerebbero un picco nelle emissioni a poche ore dalla scossa fatale. Ma esiste realmente un legame tra radon e terremoti? E cosa ne dice la comunità scientifica?

Una ricerca che va avanti da decenni
Per iniziare, va detto che il legame tra emissioni di radon e terremoti ha una base scientifica concreta. Questo gas, prodotto dal decadimento dell’uranio, è infatti presente in quantità variabili nel sottosuolo, intrappolato nelle rocce. La compressione e le microfratture che avvengono nello strato roccioso durante le ore che precedono un terremoto possono quindi fornire al gas una via per raggiungere l’atmosfera, determinando un aumento dei livelli di radon registrati nell’area.

Per questo motivo, è ormai da decenni che si studia la possibilità di utilizzare il radon come precursore sismico, ovvero come indizio di un imminente terremoto. Ma di tanti tentativi effettuati negli anni, di previsioni azzeccate se ne ricorda praticamente solo una: quella realizzata dai sismologi cinesi nel 1975, che si ritiene abbia salvato la vita a migliaia di persone evacuate proprio a ridosso di un terremoto di magnitudo 7.3. Una previsione di cui oggi è difficile valutare il razionale scientifico (a motivarla furono diversi indizi, che oltre ai livelli di radon comprendevano anche variazioni nelle falde acquifere e un comportamento inusuale degli animali), e in cui giocò un ruolo importante la fortuna, perché fu basata principalmente sulla presenza di uno sciame sismico che venne interpretato come foreshok (scosse che preannunciano l’arrivo di un terremoto di magnitudo superiore), un indizio che oggi non viene considerato affatto affidabile dagli esperti.

Il più grande fallimento però è ben più famoso: il Parkfield Earthquake Prediction Experiment, il più ambizioso e rigoroso esperimento mai realizzato per verificare la possibilità di prevedere i terremoti. A renderlo possibile, le particolari condizioni sismiche presenti nella zona di Parkfield (lungo la faglia di Sant’Andrea), che determinano il susseguirsi di terremoti con estrema regolarità: uno ogni circa 22 anni. Uno di questi eventi era previsto per la fine degli anni ‘80, e giocando d’anticipo lo Us Geological Survey decise di montare quello che venne definito “il più denso e sofisticato sistema di sensori di monitoraggio al mondo”, in attesa che il sisma colpisse. “Tra i sensori dislocati nell’area c’erano anche misuratori di radon – ha raccontato a Wired Alessandro Amato, ricercatore del Centro nazionale terremoti all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) – e quando il terremoto alla fine arrivò nel 2004, con più di un decennio di ritardo rispetto alle previsioni, i sensori non mostrarono nessuna anomalia”.

In pochi sono d’accordo con Giuliani
È per questo che la comunità scientifica è estremamente scettica riguardo alle attuali possibilità di utilizzare il radon per prevedere l’arrivo di un terremoto. Dal canto suo, Giuliani è certo di aver sviluppato una metodologia che lo rende possibile. La sua tecnica però non è mai stata descritta in alcun articolo pubblicato su riviste peer reviewed, e ha sempre ricevuto forti critiche dagli esperti del settore. “Quello che misura, probabilmente, è solo rumore di fondo, normali fluttuazioni statistiche che non hanno alcun significato”, sottolinea ad esempio Amato. “I grafici che continua a distribuire in occasione di qualche nuovo terremoto, come quelli pubblicati su Facebook in seguito a quello del 24 agosto, coprono sempre un arco temporale troppo corto per avere qualche rilevanza. In questo modo, un qualche picco di emissioni lo trova sempre, ma servirebbero serie statistiche molto più lunghe per dimostrare davvero di aver scoperto qualcosa”.

Le ricerche serie comunque procedono
Guardando agli sviluppi più recenti delle ricerche sul radon, uno dei maggiori successi arriva proprio dall’Italia. E più precisamente, da uno studio effettuato dai ricercatori dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e dell’università Roma Tre, che nel 2010 ha permesso di isolare gli effetti prodotti dalla deformazione uniassiale di una roccia sulla variazione del rilascio del gas radon prima di un terremoto. “Quello che abbiamo fatto è stato simulare in laboratorio le sollecitazioni cui sono sottoposte le rocce – ha raccontato a Wired Paola Tuccimei, docente di Geochimica ambientale di Roma Tre e coautrice della ricerca – per studiarne gli effetti sul rilascio di radon, escludendo però gli altri fattori che possono influenzarlo, come la temperatura, l’umidità e la pressione atmosferica”.

In questo modo, è emerso come le emissioni di radon nelle condizioni che precedono un terremoto possano variare a seconda del tipo di roccia esaminata. Nel caso di rocce porose come i tufi infatti la compressione tende a chiudere i pori naturalmente presenti nel materiale, con un effetto opposto a quello previsto normalmente, generando una diminuzione nell’emissione di gas. Nelle rocce più dense invece la compressione determina la prevista formazione di microfratture, che si propagano fino a generare la superficie di rottura: solo in quel momento i ricercatori hanno riscontrato un forte rilascio di radon.

Per un modello predittivo, servono ancora decenni
Risultati importanti, dicevamo, ma ancora lontanissimi dal garantire la possibilità di prevedere l’arrivo di un terremoto. “Le variabili in gioco sono veramente troppe”, aggiunge infatti Tuccimei. “Nei nostri lavori abbiamo esaminato l’influenza della temperatura, del tipo di deformazione cui le rocce sono sotttoposte e della presenza di acqua. Ma siamo ancora a decenni di distanza dal poter pensare di sviluppare modelli predittivi sfruttando le emissioni di radon”.

E se mai un modello simile sarà sviluppato, conclude l’esperta, sarà basato probabilmente sull’analisi multidisciplinare di una serie più ampia di precursori sismici, come le variazioni della resistività elettrica, della velocità di propagazione delle onde sismiche e del sollevamento del suolo.

 

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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