Energia, un futuro da ricostruire

Fare una storia dell’uso dell’energia solare nelle città richiede qualche riflessione su una realtà, tutto sommato, recente ma che tendiamo a dimenticare. Fino a gran parte del secolo scorso, tutte le città dell’Europa mediterranea erano essenzialmente solari. E se il riscaldamento degli edifici urbani basato sul petrolio iniziò ad affermarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel nostro paese la diffusione di massa di dispositivi di raffrescamento è cosa del secolo appena iniziato. Possiamo discutere la validità e l’attualità di quelle realtà urbane oppure la qualità della climatizzazione naturale che esse offrivano, ma è evidente che fossero “città solari”, dato che la transizione verso le “città petrolifere” è avvenuta con la graduale sostituzione del carbone che, iniziata negli anni Trenta, si diffuse nel secondo dopoguerra.

Studi recenti hanno corretto una credenza consolidata, e condivisa da molti ingegneri meccanici, secondo la quale le condizioni di benessere sono le stesse durante tutto l’anno e anche per società che vivono in regioni culturali e climatiche diverse. Queste nuove ricerche mostrano, invece, che le temperature che le persone trovano confortevoli negli ambienti interni variano in funzione della temperatura media all’esterno. Michael A. Humphreys, per esempio, confrontando edifici senza impianti con quelli dotati di impianti di riscaldamento o raffrescamento, è in grado di mostrare le correlazioni tra i mutamenti della temperatura di benessere e le temperature medie mensili esterne (1). Queste informazioni ci aiutano a comprendere quanto potevano essere confortevoli le città solari, offrendoci un approccio radicalmente diverso da quello sviluppato dagli ingegneri meccanici. Invece che porre una persona seduta all’interno di una cella sperimentale, attrezzata per fornire variabili condizioni di temperatura, umidità relativa, ventilazione, ecc., e chiedergli di segnalare quando non avverte più alcuna sensazione di caldo, di freddo o di aria in movimento, questi ricercatori svolgono inchieste sul campo, chiedendo a diverse persone se trovano confortevoli i luoghi di lavoro in cui si trovano e misurandone lo stato. Mentre i primi cercano di definire delle condizioni fisiologiche ideali astraendo dai contesti reali, i secondi cercano di comprendere quali situazioni reali siano considerate confortevoli dai soggetti che le vivono.

Quando parlo di città solari i miei interlocutori pensano soprattutto alle città greche e romane. Le città solari sembrano un problema da archeologi, limitato a un passato remoto. In effetti, non è facile ricordare case senza impianti, anche perché la cultura delle case con gli impianti, delle machine a habiter prodotte industrialmente, si è diffusa prima degli stessi impianti. Le aspettative, create dal movimento moderno, di macchine abitabili molto più simili alle auto che agli edifici, al passo col progresso tecnologico, ci fanno ritenere le città solari come una realtà meramente archeologica. In effetti, queste città non sono scomparse, come è invece accaduto per i loro abitanti e per molti dei loro edifici. Basterebbe guardare alle tante città storiche con uno sguardo che riesca a intuire oltre i tanti stravolgimenti e le sovrapposizioni sopraggiunti nella più recente epoca del “consumismo energetico” per riconoscere soluzioni costruttive e tipologie edilizie che potrebbero essere valide per le future città.

Abituati ai prodotti industriali che hanno tutti la medesima età poiché funzionano per sostituzione progressiva di quelli precedenti e sono quindi sincronizzati intorno al 2005, non vediamo che le città posseggono una profondità storica che opera per integrazione di prodotti con età molto diverse, appartenenti a culture diverse. Nelle città il tracciato romano è presente senza essere appiattito al 2005 perché i suoi prodotti sono diacronici. Il nostro compito di progettisti è scegliere cosa è meglio per una città, non cosa assomiglia di più alla nostra idea del futuro. Non occorre progettare il presente perché non si tratta di progettare il tempo, quindi non si tratta di proporre un nostalgico “ritorno all’antico”, ovviamente improponibile, quanto del riconoscimento di una necessità: quella di migliorare la qualità della vita nelle città e negli insediamenti rurali, progettando diversamente gli edifici dei prossimi 25 anni. Una progettazione che, comunque, dovrà tener conto del fatto che almeno il 60 per cento delle nuove abitazioni sorgerà in aree già urbanizzate e dovrà, quindi, essere integrato in tessuti urbani pre-esistenti, con tutte le limitazioni ma anche le potenzialità che ne conseguono. Infatti, se alla fine del XIX secolo soltanto il 10 per cento della popolazione mondiale viveva nelle città, all’inizio del XXI secolo si è arrivati al 50 per cento e nei prossimi 25 anni potrebbe raggiungere il 90 per cento degli abitanti del pianeta, due terzi dei quali nei paesi più poveri.

I nostri problemi sono molto diversi da quelli del secolo scorso, interessano prevalentemente interventi di riqualificazione, riempimenti delle parti di città lasciate vuote dalle affrettate e disperse espansioni urbane. Gli interventi dovrebbero proporre edifici contestuali, per integrarsi in ambiti preesistenti, non oggetti edilizi indipendenti dal contesto, come quelli proposti da gran parte della cultura architettonica contemporanea.Il bisogno di immaginare una rinascita della città solare è sostenuto dalle previsioni sulla fine della disponibilità di petrolio che non è più in un futuro lontano (e il tempo richiesto per adattare le nostre città è molto breve) ma soprattutto dai dati sul surriscaldamento globale del pianeta. Come spero di dimostrare in questo articolo, però, dovremmo perseguire le città solari soprattutto per migliorare la qualità della nostra vita, anche se il petrolio non dovesse finire e il pianeta non dovesse surriscaldarsi.

La continuità della climatizzazione solare, comprendente lo spazio interno delle case e quello esterno di strade e piazze, ha fatto evolvere le città come sistemi di comunicazione. Le città petrolifere, al contrario, isolano la climatizzazione degli interni edilizi e riempiono le strade di macchine, inquinando le città e riducendo le comunicazioni interpersonali alla sola trasmissione di informazioni.

Culture stanziali e nomadi

In un suo libro molto importante, Reyner Banham, uno dei pochi storici di architettura che si sono occupati dei contenuti ambientali, perciò di climatizzazione e di impianti, ricorre a una sorta di parabola per presentare due possibili scelte di fronte a questo problema. Messe di fronte alla necessità di doversi riscaldare, due comunità che vivono in una regione boscosa adottano due differenti metodi di impiego delle risorse ambientali disponibili: la prima comunità usa il legno per costruire case, ripari dal freddo; l’altra lo brucia in falò all’aperto intorno ai quali la gente si raduna (2).

La prima soluzione – la risposta strutturale – è impegnativa ma anche più duratura e caratterizza il comportamento di una comunità stanziale; l’altra risposta – la soluzione energetica – è immediata ma anche effimera e contraddistingue il comportamento di una comunità nomadica. Possiamo dire che le città solari appartengono alla prima delle due culture mentre le città petrolifere caratterizzano soprattutto la seconda; anche se abbiamo coperto il pianeta di edifici, noi rappresentiamo infatti meglio la seconda cultura, quella nomadica che brucia il legno, sebbene nel nostro caso si tratti di petrolio. Le case e le città dove viviamo tendono a diventare sempre di più dei veri e propri impianti, enormi e complessi, che accendiamo quando ci ospitano e spegniamo quando ne usciamo, come delle grandi automobili parcheggiate. E, in perfetta sintonia con questa metafora automobilistica, l’attuale tendenza nella produzione industriale di edifici è quella di ridurne progressivamente la durata.

È infatti invalsa una forma di “consumismo” che non solo brucia petrolio per scaldare le case ma arriva a bruciare metaforicamente anche gli edifici per poterli rifare.Tante volte mi sono chiesto come mai la nostra civiltà industriale, che è in grado di sviluppare prodotti straordinari, non sia capace di produrre città decenti. È evidente che, nonostante tutti gli sforzi e l’intelligenza di progettisti e amministratori, la città è un problema che non sappiamo risolvere, come avviene, secondo alcuni, per la questione ecologica (3). L’una e l’altra erano invece al centro della cultura insediativa stanziale che ha caratterizzato l’Europa mediterranea, che non sapeva fare i nostri attuali prodotti eppure ci ha lasciato città che durano tuttora. Quando si celebra il nomadismo della nostra civiltà si tende a inquadrarlo in una dimensione temporale che lo considera un fenomeno della modernità.

La propensione per l’internazionalismo di città e architetture, la facilità di spostamento dovuta alla tecnologia dei trasporti, la globalizzazione mediatica, Internet, vengono proposti come valori di una società in continuo movimento. In un simile contesto, una cultura stanziale oltre che apparire antiquata sembra irrealizzabile, anche se gli attuali mezzi di comunicazione la renderebbero possibile. Ma riflettendo sulle città solari e sulla loro realtà, appare evidente che quel nomadismo ha anche forti connotazioni spaziali. In una certa misura, si può sostenere che esso appartiene più alla cultura dell’Europa continentale (comprendente anche l’Inghilterra) che non a quella dell’Europa mediterranea. Quei grandi spostamenti di popoli e di civiltà che erano le invasioni barbariche e le varie forme di colonialismo, sono stati più frequenti nell’Europa continentale, che ha anche maggiormente sviluppato una cultura compatibile con questi processi migratori.

Visitando, tempo fa, una grande mostra della civiltà celtica a Venezia, mi sono meravigliato di trovare oggetti bellissimi, navi, macchine, armi, ecc., ma non città e neanche una cultura architettonica confrontabile con la nostra. Riflettendo su questa osservazione, ho cominciato a pensare che molte discussioni sulle caratteristiche della cultura architettonica, sugli effetti della tecnologia industriale nell’evoluzione degli edifici e degli insediamenti siano mal poste. La contrapposizione tra coloro che vogliono accentuare l’apporto delle innovazioni tecnologiche alla soluzione dei nostri attuali problemi e quelli che, invece, accusano la tecnologia di tutti i nostri mali è irrisolvibile poiché non fa alcuna distinzione fra i vari tipi di prodotti, e in particolare fra i prodotti mobili (auto, computer, televisione, ecc.) e quelli immobili (edifici, città, strutture insediative, ecc.).

L’icastico slogan, di lecorbusiana memoria, che vede la casa come machine a habiter ha portato a credere che i prodotti immobili si possano produrre con gli stessi criteri di quelli mobili, una credenza motivata dai tanti successi raccolti nel realizzare questi ultimi. Eppure il lungo ciclo di vita, l’intreccio di relazioni col contesto, la multi-funzionalità sono rilevanti caratteristiche dei beni immobili che suggeriscono di distinguere i due processi produttivi, e che spiegano anche le attuali difficoltà. Dove incontriamo i maggiori problemi? Nelle città, negli edifici, nell’agricoltura, nell’ecologia, nei tanti conflitti etnici territoriali, ecc., cioè negli ambiti che interessano proprio i prodotti immobili.

Oggi queste due culture, quella stanziale e quella nomadica, sono in buona misura sovrapposte, nel senso che abitano le stesse regioni, anche se una delle due si sente più a casa propria dell’altra. Eppure tendiamo a collocarle, più che in spazi, in tempi diversi, con un implicito giudizio di valore: alla cultura stanziale attribuiamo il tempo passato mentre a quella nomadica attribuiamo il futuro. Così la cultura dell’Europa mediterranea, capace di produrre città, apparterrebbe a una storia passata e irripetibile mentre quella dell’Europa continentale rappresenterebbe il futuro. La strada del progresso porrebbe come obbligato e privo di alternative il perseguimento del modello continentale, secondo quella “scienza della storia” che ci ha regalato altre ideologie, con risultati che sarebbe meglio evitare di ripetere. Se la rivoluzione industriale nasce nell’Europa continentale e raggiunge quella mediterranea solo molto più tardi, vi sono evidentemente delle ragioni che dobbiamo comprendere.

Semplificando al massimo, possiamo dire che l’Europa continentale diffonde la cultura della Riforma che ha portato alle società liberali delle economie moderne e dei prodotti mobili. L’Europa mediterranea ha invece prodotto una cultura urbana che, travolta dalla modernità, sembra non avere alcun futuro. Ciò è paradossale, visto che è quella che vede le città come sistemi di comunicazione. Le città dell’Europa mediterranea hanno sviluppato, insieme al linguaggio, un evoluto sistema di comunicazioni interpersonali proprio attraverso l’organizzazione della loro architettura civica. Hanno anche insegnato a tutto il mondo come costruire queste città. Non a caso, la cultura architettonica delle città mediterranee ha sviluppato, anche mediante la codificazione dei tipi edilizi e degli ordini, una efficacia comunicativa di durata eccezionale e che riguarda sia le opere che il loro sistema simbolico.

Prodotti mobili versus prodotti immobili

La compresenza di culture differenti che contraddistingue quel complesso di prodotti diacronici che le città costituiscono aiuta a capire le difficoltà incontrate nel realizzare oggi città solari.

L’industrial design conta di ridurre tutto ciò che viene realizzato, dal cucchiaio alla città, alle modalità caratteristiche dei prodotti mobili: breve ciclo di vita, mono-funzionalità, relativa indipendenza dal contesto, produzione di massa, stessa temporalità. Edifici e città resistono da più di un secolo a questo trattamento, e penso che i risultati mediocri ottenuti in questi ambiti provengano dal mancato riconoscimento della loro specificità. Essendo prodotti immobili, essi hanno un ciclo di vita molto lungo, sono spesso multifunzionali per i mutamenti nelle destinazioni d’uso, sono fortemente dipendenti dal contesto, non sono prodotti di massa (quando si è tentato di renderli tali la qualità è stata molto bassa), hanno temporalità differenti. Non ha senso pensarli riducibili ai prodotti mobili. Le “macchine urbane”, ovvero le città che oggi abitiamo, che vorrebbero assomigliare sempre più a quei prodotti mobili di cui sono affollate, sono l’espressione delle welfare societies basate su un’economia del consumo quasi esclusivamente di prodotti mobili (auto, computer, aerei, navi, moto, arredi, vestiti, ecc.), che propagano l’illusione di una felicità individuale. La perversione del consumismo consiste soprattutto nell’idea di poter rinunciare alla vita sociale, dunque anche alla città, come condizione della sua promozione. Il consumo di prodotti mobili si propone come alternativo all’uso della città, ne fa scomparire il desiderio.

La rimozione delle città non ne evidenzia la rinuncia ma le fa apparire impossibili, in contrasto col progresso tecnologico. Nello spessore temporale delle città europee coesistono la cultura urbana dell’Europa mediterranea e quella dell’Europa continentale, ma l’appiattimento temporale dei prodotti mobili fa apparire attuale solo la seconda, ponendo l’altra nel passato. Il dilemma che ci si pone, dunque, è se perseguire una integrazione tra queste diverse culture, riqualificando gli edifici per renderli coerenti coi tracciati in cui si trovano, oppure continuare a credere che le città autenticamente moderne sono residenze parcheggiate per accedere ai servizi urbani e accelerare la transizione di tali residenze in prodotti mobili. In poche parole: se vogliamo che accanto al “sogno americano” della città diffusa caratteristico dell’Europa continentale abbia un posto anche il “sogno europeo” delle città conviviali dell’Europa mediterranea.

Queste due culture tecnologiche radicalmente differenti (4), fin qui considerate alternative, possono infatti essere complementari. Credo che se anche il petrolio non dovesse finire e il riscaldamento del pianeta dovesse arrestarsi o rivelarsi un fenomeno non causato dalle attività antropiche, la costruzione delle città solari sarebbe comunque auspicabile per la qualità ambientale e umana che le caratterizza e che le rende comunicative, non certo perché non si possa fare altrimenti. La cosa più singolare è che noi europei mediterranei, spesso senza saperlo, abitiamo delle città che sono state solari e che, proprio per questo, hanno notevoli potenzialità di recupero e di miglioramento in questo senso, sebbene molte di esse negli ultimi decenni abbiano subito pesanti interventi che rendono spesso illeggibile la loro matrice “solare”.

Risparmiare essergia

L’attuale impiego del petrolio è sbagliato anche da un altro punto di vista, quello scientifico, termodinamico. Per comprendere i problemi posti dalle scelte energetiche è necessario considerare la dimensione quantitativa e quella qualitativa. La prima potrebbe essere riferita al primo principio della termodinamica, per il quale la quantità di energia che entra e esce in ogni processo di trasformazione è costante; la seconda potrebbe essere riferita al secondo principio della termodinamica, secondo il quale in ogni processo sia il calore che il lavoro si degradano in una condizione dove tutto è calore, la quantità è la stessa, ma la temperatura è più bassa. Si è prodotta entropia, ed è cambiata la qualità dell’energia, la sua capacità a effettuare un lavoro, vale a dire quella che viene anche chiamata essergia, qualità dell’energia che dobbiamo cercare di conservare. In periodi di energia facile ci siamo abituati a un uso sbagliato dell’essergia: utilizziamo la fiamma che brucia il petrolio e gli altri combustibili fossili per riscaldare stanze nelle quali la temperatura dell’aria deve essere di poco distinguibile da quella dell’ambiente esterno. Come se disponendo di oggetti e di scatole grandi e piccole avessimo usato anche per gli oggetti piccoli le scatole grandi, confidando nella illimitata disponibilità di scatole grandi.

Ma oggi che siamo “a corto di scatole” dobbiamo usare anche quelle più piccole trovando gli oggetti adatti a entrarvi. Case e città sono, nella metafora delle scatole, oggetti piccoli per la bassa temperatura richiesta dalla loro climatizzazione e per esse andrebbe bene anche l’energia solare, rappresentata appunto dalle scatole piccole. Ma per la pigrizia dei progettisti, che non cercano le scatole adatte alle cose più piccole, continuiamo a usare le scatole grandi, che rappresentano i combustibili fossili, i quali potrebbero essere più utilmente usati per altri impieghi. Naturalmente l’alto grado di concentrazione di queste fonti energetiche richiede minore competenza progettuale e pone minori problemi di regolazione e controllo. Ma oggi, in periodi di energia difficile, diventa irrinunciabile adeguare a ogni richiesta specifica uno specifico livello di essergia, il più basso possibile compatibilmente con i vincoli posti dal sistema. Da ciò la necessità di progettare i processi energetici più rispondenti, per rendere minimi i consumi di essergia.

Abbiamo visto che i combustibili fossili sono sprecati quando sono utilizzati per climatizzare gli edifici. Basti pensare che prima dobbiamo estrarli e trasportarli nelle nostre case per bruciarli e ottenere alte temperature che poi devono essere ridotte alla temperatura di utilizzo. Tutto questo quando abbiamo l’energia solare che è già distribuita sulla Terra, alla temperatura utile e fornita a domicilio gratuitamente. Dovrebbe comunque essere ormai chiaro che di fronte a una grande varietà di richieste di essergia è necessario disporre di una altrettanto grande varietà di tecnologie, in grado di adattarsi a tali richieste. Le energie rinnovabili consentono di estendere questa varietà e rispondere correttamente a molti dei requisiti d’uso.

La città solare rappresenta una tecnologia che fa risparmiare essergia, il sapere migliore per risolvere il problema energetico in molte regioni climatiche. Osservando il consumo di energia nel mondo si vede che gli edifici coprono circa la metà dell’energia consumata dalla popolazione mondiale (5).

Un’architettura civica comunicativa

Il concetto di città solare può essere esemplificato sia da resti archeologici di città come quelli di Palmira e Priene che da città attuali come Verona e Torino. Avrei potuto sceglierne molte altre naturalmente. Essenzialmente, la città solare ha come tratti distintivi la presenza di due componenti interattive: il reticolo di strade e piazze e gli edifici che vi si conformano e che generano luoghi di incontro. Tale relazione è analoga a quella che connette il linguaggio e i suoi parlanti.

Nessun linguaggio può esistere senza parlanti che comunicano ma il linguaggio sopravvive alla scomparsa dei suoi parlanti e, a sua volta, produce nuovi parlanti. Insomma: il ciclo di vita del linguaggio è più duraturo di quello dei parlanti. Similmente, il reticolo urbano è connesso agli edifici che vi prospettano, sopravvive alla loro sostituzione e ne produce di nuovi a esso conformi. Per esempio, in molte città italiane sopravvive l’impianto urbanistico e talvolta architettonico romano anche se quasi tutti gli edifici originari sono stati via via sostituiti. Il farsi delle città, considerate come sistemi simbolici, produce una realtà civica, una cultura urbana, che si chiama urbanità, intesa come modo di vivere (6).

Le forme simboliche, linguaggio, mito, arte, storia, scienza, ecc. sono i vari modi mediante i quali l’uomo esprime le sue relazioni con l’ambiente. Penso la città come una di queste forme simboliche, o sistemi simbolici, in quanto essa dà forma alle espressioni dell’essere umano. Le città mediano simbolicamente le complesse relazioni che gli umani intrattengono col mondo e le rendono comunicative. Le città non sono soltanto i luoghi dove le comunicazioni avvengono, sono esse stesse parti integranti di un sistema di comunicazione (7). La storia delle antiche città solari mostra che i tracciati urbani (le reti della loro architettura civica) erano orientati seguendo la geometria solare ed eolica. I loro tipi edilizi, differenziati in rapporto alle diverse posizioni, avevano forme asimmetriche per captare la radiazione solare e applicavano le conoscenze, codificate da Vitruvio in poi, per orientare e dimensionare i portici e gli aggetti del tetto e ottenere così il sole d’inverno e l’ombra d’estate.

Questa tecnica solare, documentata da molte ricerche archeologiche, divenne antiquata quando gli impianti di riscaldamento e raffrescamento superarono i sistemi solari. Molte città europee conservano le reti solari di architettura civica tracciate al tempo dei romani, ma hanno sostituito i precedenti tipi edilizi solari con nuovi tipi edilizi dipendenti dal petrolio. Tuttavia, nelle città dove risulta tuttora operante tale rete si potrebbero ristrutturare gli edifici esistenti con opportuni progetti e costruirne di nuovi secondo i tipi edilizi solari più appropriati ai diversi contesti. Un processo, questo, che potrebbe essere integrato negli annuali interventi di manutenzione.

Lo sviluppo sostenibile raccomanda città compatte, che permettono di aumentare la circolazione pedonale e spostare il traffico dall’attuale circolazione intra-urbana a quella futura inter-urbana. Vi sono due modi per raggiungere la compattezza: la prima riguarda la costruzione di grattacieli e megastrutture, l’altra persegue la compattezza mediante la costruzione di isolati urbani (come è stato fatto nelle città storiche). Seguendo quest’ultima tendenza, potremmo integrare meglio i nuovi interventi nel tessuto delle città preesistenti. L’alta densità di queste città, i cui edifici hanno quote relativamente basse, offre una buona soluzione alla rinascita delle città solari.

Al fine di accrescere la consapevolezza di cittadini e progettisti intorno all’argomentazione che le città solari appartengono al presente e non al passato, dobbiamo renderci conto che i tracciati solari sono sotto i nostri piedi anche se non li vediamo, che molte delle nostre città possiedono una rete di architettura civica progettata per soddisfare i requisiti dell’energia solare e che molti edifici richiedono soltanto qualche aggiustamento per diventare solari. Nella manutenzione programmata di questi edifici come nella loro riqualificazione potremmo sostituire le attuali componenti degenerative (elementi costruttivi costituiti da materiali inquinanti, dissipanti energia, non riciclabili, ecc.) con quelle rigenerative solari per risparmiare essergia.

Ho fatto questa premessa per mostrare le città solari da una prospettiva che evidenziasse la funzionalità delle loro soluzioni urbanistiche e costruttive, superando quella visione convenzionale che ce le fa apprezzare, nella migliore delle ipotesi, esclusivamente sul piano storico-artistico, come pittoresche sopravvivenze di un’epoca passata che, però, non ha nulla da dirci sul piano funzionale (liberandoci così anche dall’impegno di realizzarle). Vorrei che queste città solari fossero apprezzate nel loro essere contemporanee alle città industriali, anche se rese quasi invisibili da queste e da una ideologia che nel nominarle le interpreta come distinte nel tempo più che nella cultura e nello spazio. Sono due prospettive diverse che non perseguono gli stessi obbiettivi, una ha ideali di nomadismo che producono straordinari prodotti mobili, che troviamo nelle nostre attuali città industriali, l’altra ha ideali di radicamento che possono produrre meravigliosi prodotti immobili, che si rivelano nelle reti di architettura civica dei nostri centri storici.

Il “sogno americano” è l’espressione di quella cultura, tuttora extrasomatica, che sta conquistando l’intero pianeta, l’altra è quel “sogno europeo” che potrebbe intraprendere una cultura intersomatica delle città (8). Un progetto appropriato può integrare questi sogni.

Dal collettore all’edificio solare

La ricerca dei modi più efficaci di utilizzare l’energia solare ha una storia molto antica e, per quanto riguarda edifici e città, ha due origini: una tipologica, i cui magisteri sono tutti dentro l’architettura, e l’altra tecnologica, basata sulle conoscenze scientifiche. La determinazione dell’orientamento, delle aperture, di aggetti e portici, serre, pergole e verande, si basava su tipi esemplificati dalla teoria dell’architettura, codificata da Vitruvio e dalla successiva trattatistica e studiati nell’ambito della prospettiva tipologica. L’interesse che riguarda più direttamente la progettazione “scientifica” di edifici capaci di sfruttare l’energia solare ha assunto invece un certo rilievo solo nei primi anni Settanta dello scorso secolo con la crisi petrolifera. L’origine tipologica interessa soprattutto l’edificio poiché gli impianti non esistevano ancora, quella tecnologica inizia invece dall’impianto. I primi collettori solari alimentavano infatti l’impianto di climatizzazione dell’edificio, in seguito (coi sistemi solari passivi) il collettore/impianto viene abitato e diventa edificio.

L’architettura bio-climatica, che riporta molte funzioni dell’impianto alla morfologia dell’edificio, arriva molto più tardi e si integra con difficoltà nella tradizione tipologica.Ripercorrendo l’evoluzione tecnologica, vediamo che la radiazione solare entrò nelle case sin dagli anni Cinquanta attraverso i sistemi solari attivi, ovvero alimentando l’impianto con l’energia del Sole invece che col petrolio.

Riflettendo sul funzionamento fisico del collettore si comprese come una parte dell’energia solare che attraversa un vetro sia da esso trattenuta quando cambia lunghezza d’onda e diventa energia termica, allora quella energia può scaldare aria o acqua per alimentare un impianto, ma se costruisco un collettore grande abbastanza per essere abitato quell’aria può scaldare direttamente l’edificio. Nacque così l’idea della casa-collettore solare: una grande vetrata esposta al Sole può infatti trasformare l’intero edificio in un grande impianto abitabile. Per distinguerli da quelli attivi questi sono definiti sistemi solari passivi, anche perché ricordano quei guadagni passivi che obbligano i progettisti degli impianti di climatizzazione estiva a tener conto, oltre che dell’energia immessa o emessa dall’edificio, per la differenza di temperatura tra esterno e interno, anche di quella supplementare prodotta dalle persone, dalle macchine e dalla radiazione solare. Certamente, durante l’inverno questi guadagni passivi vanno a integrare il riscaldamento prodotto dall’impianto, riducendone i consumi, ma d’estate, aggiungendosi a quelli generati dal divario di temperatura, essi aggravano il lavoro richiesto dall’impianto di raffrescamento. Di fatti, la cultura del solare passivo nasce in paesi dove non ci sono rilevanti problemi di raffrescamento. Le prime tipologie di sistemi solari passivi esemplificate nelle realizzazioni si chiamano infatti “guadagno diretto” (la grande vetrata a sud), “guadagno indiretto” (il muro Trombe) e “guadagno isolato” (la serra solare). La St. George School, realizzata a Wallasey nel Cheshire, Regno Unito, (A. E. Morgan, 1961), la Scuola Materna di Crosara a Marostica, Italia (1972), le Case Solari di Odeillo nei Pirenei, Francia (F. Trombe, 1967), le Case Solari di Santa Fe, Nuovo Messico (P. Van Dresser, 1957) e il Phoenix Test Building in Arizona (H. Hay e J. Yellott 1968), Stati Uniti, sono alcuni esempi significativi di queste ricerche.

Tra le più interessanti, dal punto di vista della progettazione, sono le scuole, caratterizzate da un’alta densità di persone che immettono energia all’interno e dal fatto che non funzionano durante l’estate; i luoghi invece sono caratterizzati da buona radiazione solare di giorno con notti fresche dovute all’altitudine, quindi con pochi problemi di surriscaldamento estivo. Sono stati proprio i limiti di applicabilità dei sistemi solari passivi, pochi luoghi e poche destinazioni d’uso compatibili, a far capire che il clima, più ancora del Sole, non è un vincolo ma una risorsa. L’architettura moderna aveva integrato quella tecnologia dell’impianto che avrebbe atrofizzato negli architetti “post-solari” la capacità di distinguere i luoghi, liberando i loro formalismi dai vincoli del clima. Ora gli stili degli edifici, indifferenti al clima, potevano diventare finalmente internazionali.Nel 1976, un convegno organizzato negli Stati Uniti, ad Albuquerque, dalla Passive Systems Division della AS/ISES (la sezione americana dell’International Solar Energy Society) dedicò per la prima volta un’attenzione specifica agli edifici.

All’epoca esistevano già molte esperienze da confrontare: sia edifici costruiti che ricerche svolte. Personalmente, detti il mio contributo progettando e costruendo due scuole, a Tarvisio (UD) nel 1964 e a Marostica (VI) nel 1972, che esemplificavano l’approccio tipologico all’architettura solare. Sollecitato dalle questioni poste dalla crisi ambientale, avevo costituito con l’architetto Natasha F. Pulitzer una società di servizi progettuali, Synergia, per offrire alla ricerca un supporto tecnico e scientifico. Questa divenne un’unità operativa che sviluppò molte interessanti ricerche finanziate dal CNR/PFE, dal MICA, dal MURST e dalla CEE, riunendo un gruppo affiatato ed entusiasta di giovani architetti, fisici e ingegneri. L’ambito universitario di Venezia, infatti, non offriva molto spazio a queste esplorazioni, che operavano in un territorio ibrido tra tipologia e tecnologia, tra arte e scienza.

L’opportunità per approfondire queste ricerche ci fu offerta dal secondo convegno della AS/ISES sui sistemi solari passivi che si svolse a Philadelphia nel 1978 e al quale partecipammo con Giacomo Elias, allora direttore del Progetto Finalizzato Energetica 1 del CNR, e Federico Butera. In quell’occasione visitammo alcuni edifici solari dimostrativi e centri di ricerca e consolidammo una rete di relazioni, sviluppata anche negli anni successivi attraverso collaborazioni scientifiche e professionali, che dura tuttora. L’Italia era presente già allora con una serie di contributi originali: oltre alla ricordata Scuola Materna Solare di Crosara del 1972 e al libro L’architettura dell’evoluzione, realizzato sempre nell’ambito di Synergia con Natasha Pulitzer e pubblicato in occasione del Salone dell’Industrializzazione Edilizia di Bologna nel 1977 (9), la delegazione poteva citare altri due libri dedicati a queste problematiche, quello di Lorenzo Matteoli del Politecnico di Torino (10), quello del Gruppo Energia Solare dell’Università di Napoli diretto da Vittorio Silvestrini (11). Nel 1978 aderirono all’ISES italiana i grandi enti energetici, ENI ed ENEL. Con l’impegno del Ministero dell’Industria fu così possibile organizzare interventi e manifestazioni per affrontare l’integrazione dell’energia solare alle energie convenzionali e offrire incentivi economici al loro sviluppo.

Dopo il Convegno di Philadelphia, i contatti con gli Stati Uniti continuarono, incoraggiati anche da una Cooperazione Italia/Stati Uniti, attivata dal Ministero Industria nella quale, assieme a Aldo Fanchiotti dello IUAV, ero incaricato di rappresentare l’Italia. Ebbi così modo di seguire nel 1979 un’importante evoluzione dell’architettura solare dall’approccio passivo a quello bio-climatico e di contribuire alla fondazione del PLEA (Passive and Low Energy Architecture), un’associazione che, in ideale continuità col CIAM, opera tuttora a livello internazionale per la diffusione a scala mondiale dell’architettura solare e sostenibile.

Alla fine degli anni Settanta dunque la ricerca tecnologica incrociò la prospettiva tipologica mediante l’approccio bio-climatico, che interferisce con la configurazione dell’edificio. La consapevolezza dei limiti geoclimatici dei sistemi solari passivi, che ne scoraggiò l’applicazione generalizzata, spinse infatti il Dipartimento di Energia statunitense a presentare al terzo Convegno AS/ISES di San Jose in California del 1979 un manuale, le Regional Guidelines (12), che segue i principi dell’architettura bio-climatica enunciati da Victor Olgyay nel libro Design with Climate del 1963 (13). Questi aveva definito come “bioclimatico” (14) il regionalismo architettonico proposto negli anni Cinquanta dallo storico Sigfried Giedion (1888-1968) (15) fornendo a questa idea un complesso di strumenti che il Dipartimento di Energia statunitense ritenne validi per ridurre il fabbisogno di energia negli edifici. Nel corso dell’anno seguente, collegato al Convegno dell’AS/ISES che nel 1980 si tenne a Phoenix, in Arizona, organizzai con un carissimo amico, Jeff Cook, allora docente dell’Arizona State University e purtroppo mancato nel 2003, un simposio internazionale dedicato all’interpretazione bio-climatica dell’architettura di Frank Lloyd Wright, il grande architetto americano che senza rinunciare alla sua personalità poetica costruiva edifici molto diversi in rapporto alle diverse condizioni climatiche, dall’Arizona al Wisconsin, dalla Florida alla California (16).

Questa connessione dell’architettura al clima locale rappresenta una transizione molto importante da vari punti di vista: prima di tutto poiché connette l’architettura solare al luogo in cui è costruita, rendendola così regionale, poi perché la collega con uno dei maggiori protagonisti dell’architettura moderna.Nei primi anni Ottanta, dunque, avvennero importanti mutamenti nella cultura della progettazione architettonica solare. Nel 1981 all’ISES Italia si chiuse la fase pionieristica di Vittorio Storelli, fondatore della sezione italiana nel 1964, e, con la presidenza di Corrado Corvi, si aprì un programma molto articolato di azioni. Fu dedicato un ambito specifico all’architettura bio-climatica, del quale fui responsabile per alcuni anni, e iniziò a formarsi quella rete di contatti interpersonali che consente di scambiare informazioni e idee. La vocazione italiana, mediterranea, alla costruzione di edifici pubblici multi-piano ci portò a sviluppare in questo settore non solo la ricerca ma anche la costruzione di edifici dimostrativi (Phoebus, ENI, Agip Petroli, Enea, IACP) e a studiare prototipi per la regolazione di facciate variamente orientate (INSO), il monitoraggio di edifici e parti di tessuto urbano, la predisposizione di piani energetici (Trentino, 1983) la pubblicazione di manuali di progettazione per la CEE, il PFE e il Trentino (17).

Purtroppo, con la fine della presidenza di Jimmy Carter nel gennaio 1981, negli Stati Uniti gli interventi per contenere l’impatto ambientale e usare energie rinnovabili si ridussero drasticamente. Ma se il programma politico perseguito da Ronald Reagan interruppe molte ricerche operanti sull’energia solare, si aprirono, comunque, nuove prospettive in Europa, nell’ambito della CEE. Del carattere regionale dell’architettura si discusse in un convegno internazionale che organizzai a Venezia nel 1985 (18) mentre sul trasferimento dei saperi della progettazione bio-climatica alla scala urbana (19) predisposi, in quello stesso anno a Trieste, con la collaborazione della Regione Friuli Venezia Giulia e dell’ISES, una mostra convegno internazionale. Questo evento spostò l’attenzione della cultura architettonica dal singolo edificio al contesto urbano e alla città, ponendo le basi per uno studio sistematico sulle città sostenibili. Nel 1987 un analogo convegno si svolse a Cambridge, nel Regno Unito; e nello stesso anno la WCED (World Commission on Environment and Development) pubblicò il Brundtland Report che contiene la definizione di sviluppo sostenibile.In quegli stessi anni emerse anche, soprattutto in Austria e Germania, una sensibilità particolare per gli effetti che molti edifici hanno sulla salute dei loro abitanti, e con essa l’interesse per la bio-edilizia cui segue la bio-architettura. Nei primi anni Novanta iniziò a operare l’ANAB (Associazione Nazionale di Architettura Bio-eco-compatibile) e l’energia solare nell’edilizia si fece sempre più integrata con molti altri aspetti del progetto.

Un’altra associazione impegnata in questo settore è l’INBAR (Istituto Nazionale di Bio Architettura). Entrambe le associazioni operano nella formazione organizzando corsi e laboratori progettuali. L’ANAB, in particolare, si occupa anche di certificazione di prodotti e tecnologie. In questi ultimi anni, le attività che sviluppano le applicazioni dell’energia solare nella progettazione architettonica a varie scale si sono moltiplicate e si è fatto sempre più urgente un lavoro di integrazione nella cultura architettonica, la quale spesso ha eluso i problemi posti dalla qualità ambientale e dalle risorse energetiche. È importante, infine, notare che le più recenti direttive della UE per ridurre l’inquinamento puntano proprio sull’efficienza del sistema edificio-impianto, consolidando così l’attualità dell’architettura bio-climatica. Purtroppo però, mentre la cultura del progetto solare si è avvicinata all’architettura non si può dire altrettanto della cultura architettonica, che continua a eludere le questioni poste dal surriscaldamento del pianeta e dall’esaurimento delle risorse petrolifere.

NOTE

(1) Humphreys, M. A., “Field Studies of Thermal Comfort Compared and Applied”, Journal Inst. Heat. & Vent. Eng., 44, 1978, pp. 5-27.

(2) Banham, R., Ambiente e tecnica nell’architettura moderna, Laterza, Bari 1978.

(3) Luhmann, N., Comunicazione ecologica, Franco Angeli, Milano 1989.

(4) Gras, A., Fragilite de la puissance, se liberer de l’emprise technologique, Fayard, Paris 2003.

(5) Behling, S. e S., Sol power, the evolution of solar architecture, Prestel verlag, Munich 1996, pp. 20-21.

(6) Goodman, N., Ways of worldmaking, Hackett, Indianapolis/Cambridge 1978 (Vedere e costruire il mondo, Laterza, Bari 1988).

(7) Cassirer, E., Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961; Goodman, N., Languages of art, an approach to a theory of symbols, Hackett, Indianapolis/Cambridge 1976 (I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 1976).

(8) L’energia solare ha messo in moto la vita sulla Terra: l’evoluzione intrasomatica (biologica) e quindi quella extrasomatica (culturale). Accanto a quest’ultima ritengo necessario considerare la cultura che ho chiamato intersomatica e che interessa le nostre comunicazioni e interazioni. L’evoluzione intrasomatica riguarda gli organismi, quella extrasomatica i dispositivi tecnici che ci aiutano a sopravvivere mentre quella intersomatica fa evolvere i nostri sistemi di comunicazione/interazione sia con le altre persone che con l’ambiente “naturale”. Questa tesi è presentata nell’introduzione a “L’architettura dell’evoluzione”.

(9) Los, S., Pulitzer, N. (a cura di), L’architettura dell’evoluzione, il sistema abitazione dalla industrializzazione edilizia alle tecnologie alternative, Luigi Parma Editore, Bologna 1977.

(10) Matteoli, L., Azione ambiente, Libreria Cortina Editore, Torino 1977.

(11) Silvestrini, V. con Gruppo Energia Solare dell’Università di Napoli, Il clima come elemento di progetto in edilizia, Liguori Editore, Napoli 1977.

(12) AIA Research Corporation, Regional guidelines for building passive energy conservino homes, US Department of Housing and Urban Development, Washington DC 1979.

(13) Olgyay, V., Design with climate, bioclimatic approach to architectural regionalism, Princeton University Press, Princeton New Jersey 1963.

(14) Il termine “bioclimatico” è mutuato dal climatologo norvegese Wladimir Köppen (1846-1940) che classificò i climi del pianeta considerando assieme ai fattori fisici anche le forme di vita che essi rendono possibili. Il termine è stato in seguito largamente usato sia in geografia sia, dopo la pubblicazione del libro di Olgyay, in architettura.

(15) Giedion, S., The architecture you and me, Harvard University Press, Cambridge MA 1958 (Breviario di Architettura, Garzanti, Milano 1961).

(16) Los, S., “La climatizzazione naturale dell’architettura”, in Casabella, 461, Electa, Milano 1980.

(17) Los. S., Pulitzer, N., L’architettura del regionalismo, guida alla progettazione bio-climatica in Trentino, Temi Editore, Trento 1985; I caratteri ambientali dell’architettura, guida alla progettazione sostenibile in Trentino, Arca, Trento 1999.

(18) Los, S. (a cura di), Regionalismo dell’architettura, Franco Muzzio, Padova 1990.

(19) Los. S., Pulitzer, N. (a cura di), La città del sole, la progettazione urbana ambientale -energetica, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1985.

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