Tracce di rna del nuovo coronavirus Sars-Cov-2 potrebbero essere presenti non solo nelle acque di scarico, ma anche nel particolato atmosferico Pm10. È un’ipotesi formulata da un gruppo di scienziati italiani, affiliati a varie università, che fanno parte della Società italiana di medicina ambientale (Sima). I ricercatori, che già in precedenza si erano occupati del tema, scrivendo un position paper, hanno oggi divulgato questa notizia su due loro studi, uno ancora non peer reviewed e in preprint su medrxiv e l’altro in una versione ancora preliminare ma accettata per la pubblicazione dall’International Journal of Environmental Research and Public Health.
I risultati da loro ottenuti non dimostrano la presenza del coronavirus intatto nel particolato, ma di tracce di rna del virus – un dato che non implica che il virus sia attivo e abbia una carica infettante sufficiente per contagiare. Questa scoperta, però, potrebbe essere importante, qualora confermata: secondo gli autori, il particolato, proprio come le acque di scarico, potrebbe diventare una spia, un indicatore di casi e di un focolaio di coronavirus nella zona in cui vengano trovate delle tracce di rna virale. E questo metodo, spiegano gli autori, potrebbe essere valido sia outdoor, sia indoor, cercando l’rna nelle polveri negli ambienti chiusi.
Lo studio
Gli autori hanno raccolto diversi di campioni Pm10 nell’aria in siti industriali della provincia di Bergamo, raccolti in maniera continuativa per un periodo di tre settimane, dal 21 febbraio (data in cui sono apparsi i primi casi in Italia) al 13 marzo. “I campioni – ha spiegato Leonardo Setti, coordinatore del gruppo di ricerca insieme a Gianluigi De Gennaro e ad Alessandro Miani – sono sono stati analizzati dall’università di Trieste in collaborazione con i laboratori dell’azienda ospedaliera Giuliano Isontina”.
I risultati
Il team ha verificato la presenza di rna del coronavirus in almeno 8 delle 22 giornate prese in esame. Dei 34 campioni testati, prosegue Setti, in 12 casi i risultati erano positivi per tutti e tre i marcatori molecolari utilizzati (il gene E, il gene N ed il gene RdRP – quest’ultimo altamente specifico per la presenza dell’rna virale Sars-Cov-2, come spiega il ricercatore). “Possiamo confermare – ha riferito Setti – di aver ragionevolmente dimostrato la presenza di rna virale di Sars-Cov-2 sul particolato atmosferico rilevando la presenza di geni altamente specifici, utilizzati come marcatori molecolari del virus, in due analisi genetiche parallele”.
La prudenza è d’obbligo
Ma da qui a dire che il coronavirus viaggia nell’aria il salto è ancora troppo ampio. “La prova che l’rna del Sars-Cov-2 può essere presente sul particolato in aria non attesta ancora con certezza definitiva che vi sia una terza via di contagio”, aggiunge il ricercatore De Gennaro. “Tuttavia, occorre che si tenga conto nella cosiddetta fase 2 della necessità di mantenere basse le emissioni di particolato per non rischiare di favorire la potenziale diffusione del virus”.
In precedenza i ricercatori della Sima avevano ipotizzato che il particolato potrebbe anche essere un vettore di trasporto del nuovo coronavirus. E avevano rilevato un collegamento fra numero di contagiati giornalieri e concentrazioni di particolato. La loro indagine, tra le prime a focalizzare sul possibile ruolo dell’inquinamento nella diffusione delle infezioni, tuttavia presentava alcuni limiti. Anche per questo, come sottolineato dagli autori stessi, il condizionale è d’obbligo.
Coronavirus attivo nel particolato? “Implausibile”
Ed è bene ricordare che sul tema del particolato come vettore del coronavirus bisogna procedere con prudenza ed è importante ricordare che questa ipotesi è finora stata scartata da diversi scienziati. Per esempio, in un documento a firma di epidemiologi ed altri esperti delle Agenzie regionali per la protezione ambientale, pubblicato sul sito della Rete italiana ambiente e salute, l’ipotesi viene definita “implausibile”, dato che è improbabile, secondo gli autori, soprattutto all’aperto, che il coronavirus possa “mantenere intatte le sue caratteristiche morfologiche e le sue proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outdoor”. Anche uno studio condotto da due ricercatori dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr, Daniele Contini e Francesca Costabile, sottolinea che questa ipotesi sembra piuttosto improbabile, dato che non conosciamo le concentrazioni del virus in aria – a Wuhan sono risultate bassissime – e non sappiamo qual è il suo tempo di vita. Per questo, i ricercatori Contini e Costabile concordano sul fatto che “la probabilità di trasmissione con questo meccanismo in outdoor sembra essere molto bassa. Mentre vi può ovviamente esserci una maggiore probabilità in specifici ambienti indoor, come ospedali e aree in cui i pazienti sono messi in quarantena, o mezzi pubblici in cui viaggino molti contagiati”.
Via: Wired.it
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