Il paradiso dei mammuth

La presenza di Homo Sapiens nell’est della Siberia è provata da reperti antichi almeno 20 mila anni. Un gruppo di quei cacciatori (o forse un’intera tribù), chiamati Clovis, un giorno migrò verso l’Alaska e iniziò a colonizzare le grandi pianure nordamericane. Come? Attraverso un corridoio che collegava i due continenti. Quella terra, oggi coperta dal mare di Bering era un istmo asciutto, noto come Beringia. Ventimila anni fa l’ultima glaciazione era quasi al suo culmine, e sarebbe proseguita, sia pure diminuendo gradualmente di intensità, fino ad oltre il tempo in cui la migrazione dei Clovis ebbe luogo. In quelle condizioni, che a noi sembrerebbero proibitive, alcuni grandi animali erbivori riuscivano a sopravvivere. Certamente c’era il mammuth, ed era forse l’animale più diffuso; poi bisonti, cavalli, e buoi muschiati. Con la sua ampia massa corporea pelosa il mammuth non temeva il freddo, a condizione però di avere sufficiente foraggio di cui nutrirsi. A giudicare dalla vegetazione attuale presente nelle zone che si affacciano sullo stretto di Bering non si capisce però di che cosa si sarebbe potuto cibare il grande animali. A risolvere quello che molti ricercatori giudicavano un mistero è ora arrivato lo studio di Grant Zagula e John Westgate dell’Università di Toronto pubblicato su Nature. Che grazie allo studio di alcuni reperti fossili sono in grado oggi di descrivere con dovizia di particolari l’habitat in cui si muovevano i mammuth.Data la grande scarsità di precipitazioni, la Beringia si presentava sgombra dal ghiaccio, una terra verde, coperta da ampie praterie. La pianta più comune, scoperta dai due geologi canadesi, era l’Artemisia frigida, praticamente una salvia selvatica. La regione era arida ma aveva un ecosistema produttivo, dominato da piante erbacee. I macrofossili analizzati dagli scienziati derivano da tre siti del tardo Pleistocene situati nel territorio di Yukon, in Canada. Tra questi: un nido di roditori, datato col carbonio radioattivo a 24.000 anni fa, il contenuto dello stomaco di una carcassa di un cavallo appartenente a una razza ora estinta (Equus lambei), vecchia di 26.000 anni, resti reperiti in un terreno alluvionale trasformatosi in vero e proprio cimitero di mammuth e infine una sequenza di sedimenti alta tre metri e mezzo, nel letto del fiume ‘Bluefish’ .L’analisi del materiale scoperto rivela che la steppa dell’era glaciale era ricca di numerose varietà di piante, oltre alla salvia, anche ‘erba blu’ (Poa), ranuncoli, papaveri, segale selvatica, senape, e altre erbe. Una grande fertilità che contrasta con la desolazione dell’attuale tundra artica. Si trattava di un paradiso naturale che consentì a cavalli e bisonti di sopravvivere alla glaciazione e, di conseguenza, permise alle popolazioni umane antiche di transitare da una parte del mondo all’altra, avendo a disposizione abbondante cacciagione. Poiché ora tutto questo giace sommerso dalle acque comunicanti del Mar Glaciale Artico e il Mar di Bering, dobbiamo prestar fede alla fantasia e intuizione degli scienziati: potremo così rievocare le immagini di un’accogliente e odorosa prateria in una perduta Atlantide per mammuth.

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