Inquinamento sottile

Dopo il decreto “sblocca centrali” del 2002 è arrivato quello “anti black out” approvato lo scorso luglio e approvato il 1 ottobre scorso dal Senato. Incalzata dall’incubo black out, la maggioranza ha anticipato in questo modo alcune delle disposizioni contenute nel disegno di legge Marzano. Autorizzando di fatto il funzionamento temporaneo di centrali elettriche, anche in deroga ai limiti sulle emissioni in atmosfera e sulla temperatura degli scarichi idrici. Il ministro delle Attività Produttive si è più volte dichiarato a favore della costruzione di nuove centrali elettriche. Con quale impatto sull’ambiente? “Le centrali termoelettriche a ciclo combinato alimentate a gas naturale sono una sorgente tutt’altro che trascurabile d’inquinamento atmosferico. Gli inquinanti principali sono ossidi di azoto, monossido di carbonio, polveri fini, sostanze organiche volatili ed ossidi di zolfo”. Sono queste le conclusioni a cui giungono i ricercatori bolognesi Nicola Armaroli e Claudio Po nell’articolo “Emissioni da centrali termoelettriche a gas naturale” pubblicato sul n. 85 de “La chimica e l’industria”, organo ufficiale della Società chimica italiana. In pratica, un impianto del genere inquina tanto quanto l’intero traffico automobilistico di una città come Bologna. I dati riportati dagli studiosi si riferiscono proprio a quelle centrali, le cosiddette turbogas, che – dopo il recente blackout – si vorrebbero costruire in tutta Italia. In base agli assunti che di energia c’è inderogabile bisogno e che le turbogas hanno un impatto ambientale bassissimo. Un’opinione, quest’ultima, non condivisa nemmeno dal Consiglio d’Europa, che già da tempo ha segnalato la pericolosità per la salute anche dei moderni impianti a gas naturale, per gli ingenti quantitativi di micropolveri emesse. In un documento di qualche anno fa, il Consiglio ha infatti richiamato l’attenzione sul fatto che “i risultati di nuove ricerche mostrano che le particelle fini volatili quasi invisibili, inferiori a 2,5 millesimi di millimetro costituiscono un grave rischio per la salute. Esse penetrano direttamente nei polmoni e provocano allergie, malattie cardiovascolari e respiratorie. Sono responsabili della morte di bambini e adulti” (“Fine particle emissions and human health”, luglio 1998).Anche secondo Armaroli e Po, ricercatore dell’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività del Cnr di Bologna il primo, medico presso l’Unità operativa rischio ambientale dell’Ausl di Bologna il secondo, l’inquinamento prodotto da questi impianti è stato grandemente sottovalutato. Per le micropolveri, per esempio, nei progetti delle future centrali italiane i costruttori indicano emissioni nulle o trascurabili. Il risultato sconcertante della ricerca bolognese è che, al contrario, “una centrale da 780 megawatt produce in un anno, una quantità di PM10 (micropolveri, di diametro uguale o inferiore a 10 micron, ndr) dell’ordine di quella prodotta dal traffico della città di Bologna nella quale risiedono 375 mila persone, verso la quale migliaia di persone si muovono in auto per andare al lavoro, caratterizzata dallo snodo autostradale chiave per i collegamenti nord-sud ed est-ovest del sesto Paese più industrializzato del mondo”. In base a questi dati, la costruzione di una centrale vicino a un centro abitato vanificherebbe qualunque intervento di riduzione delle emissioni di micropolveri da traffico. Ma la valutazione è ancora più negativa se si tiene conto delle emissioni sull’intero ciclo di vita di una centrale. Il concetto di ciclo di vita (tutto ciò che viene prodotto e consumato dalla costruzione dell’impianto al suo smantellamento) è uno dei cardini per una corretta e completa valutazione di impatto ambientale. Ebbene, considerando la costruzione e lo smantellamento di una centrale da 780 megawatt e il trasporto del gas necessario per il suo funzionamento, le emissioni di gas serra aumentano di un quarto e quelle di micropolveri raddoppiano rispetto al solo periodo di operatività dell’impianto. Per giungere a questi risultati, gli autori hanno preso in esame gli studi condotti negli Stati Uniti dai più autorevoli centri di ricerca nel settore energetico e ambientale (come Epa, Environmental protection agency; Doe, Department of energy; Eia, Energy information administration), perché oltre Atlantico centrali di questo tipo sono già operative da alcuni anni. Lo studio della realtà statunitense offre anche una possibile soluzione. Nello Stato della California, spiegano i ricercatori, la legge impone che per gli inquinanti “venga specificata, nel corso del processo autorizzatorio, la quantità di emissione prevista, corredata da un adeguato ‘pacchetto di compensazione’. Si tratta di un meccanismo complesso in base al quale posta 100 la quantità di un certo inquinante di una data sorgente, debbono essere ridotte nella regione interessata le emissioni da altre fonti, tipicamente impianti produttivi, per almeno 100 dello stesso inquinante”. In Italia, invece, insieme alla carenza di dati, si assiste a livello locale a una contrapposizione di politiche arretrate, e a livello nazionale all’incapacità di elaborare soluzioni che coniughino la soddisfazione del fabbisogno energetico al rispetto della salute e dell’ambiente. In ogni comune si affrontano, tirando per i capelli i dati disponibili, i comitati di cittadini contrari alle centrali e le industrie proponenti, con le amministrazioni locali schierate dall’una o dall’altra parte sulla base di considerazioni puramente localistiche e opportunistiche. E per l’intero paese nessuno è in grado di dire, per esempio, come il rispetto degli accordi di Kyoto sui gas serra possa convivere con la costruzione delle nuove centrali a combustibili fossili.

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