Malattie rare, perché è importante avere una diagnosi anche senza terapie

malattie rare
(Foto: National Cancer Institute su Unsplash)

Sei mesi contro i 5 anni, in media, di oggi: è questo uno degli obbiettivi, ambiziosi, che ruotano intorno alla sfida delle malattie rare, per definizione quelle che colpiscono meno di 5 persone su 10 mila. Lo scarto temporale da colmare è quello che separa i tempi attualmente necessari per arrivare a una diagnosi di malattia rara da quelli che ci si augura di raggiungere nel prossimo futuro. Servono – qui più che altrove – iniziative di promozione politica, finanziamenti e tecnologie per ambire a raggiungere il risultato, come auspicato dal Rare 2030, un progetto europeo coordinato da Eurordis-Rare Diseases Europe che ha provato a immaginare il futuro per i malati rari, circa 30 milioni in Europa. Perché se è vero che in molti, tantissimi casi, i malati rari sono orfani di terapie, raggiungere una diagnosi può cambiare la vita delle persone e delle loro famiglie. E molto negli ultimi tempi è stato fatto in materia, tanto sul fronte della ricerca che della politica.

Le cifre

A raccontarlo, alla vigilia della Giornata delle Malattie Rare, è Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e responsabile qui della ricerca sulle malattie rare. “Negli ultimi anni è indubbio che sia cresciuta l’attenzione della politica sul tema delle malattie rare: a fine 2021 per esempio sono arrivati il testo unico e la risoluzione delle nazioni unite sulle malattie rare. E oggi anche un nuovo piano nazionale. D’altronde parliamo di un fenomeno di dimensioni sociali, che interessa solo in Italia due milioni di persone”. Trecento nel mondo, anche se stimare l’impatto delle malattie rare è un esercizio difficile. Non sappiamo ancora neanche quante siano: tradizionalmente si parla di almeno 7000 malattie rare, ma le ultime stime, racconta Dallapiccola parlano di almeno 10 mila: “Più realisticamente 12 mila”, azzarda l’esperto. “Di queste almeno l’85% sono malattie ultrarare, ovvero hanno una frequenza inferiore a 1 persona su un milione”. La questione numerica non serve solo a definire i confini del problema, ma rende ragione anche del perché sia così difficile diagnosticare queste malattie: “Ci sono patologie rare che sono più comuni di altre e potremmo stimare che la maggior parte dei pazienti rari rappresenti circa 150 malattie, più conosciute, ma dove si trovano esperti di 12 mila malattie?”, chiosa Dallapiccola.

I centri per le malattie rare

Se è impossibile pensare di avere uno specialista per ogni malattia, è realistico invece immaginare dei centri che radunino esperti del campo. “Nel caso in cui si osservino sintomi difficili da inquadrare, pediatri e medici, adeguatamente formati, dovrebbero essere in grado di rivolgersi ai centri specializzati – spiega a Wired Erica Daina – Direttore Centro Clinico, Centro di Ricerche Cliniche per le Malattie Rare “Aldo e Cele Daccò”, Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs: “Ed è questo il modello che si è creato negli anni: una rete nazionale costituita da centri di riferimento identificati dalle Regioni, in grado in molti casi, ma non tutti, di fornire una diagnosi. Ancora oggi infatti in tutti i centri ci sono pazienti che rimangono senza diagnosi, per motivi diversi”. In alcuni casi magari sono le stesse caratteristiche delle malattie a renderne difficile il riconoscimento: si manifestano in modo subdolo e possono richiedere un tempo di osservazione prolungato prima di arrivare a una diagnosi, spiega l’esperta: “In altri è possibile che ci si trovi difronte a una malattia ‘nuova’, o meglio non ancora descritta”. Questo sottogruppo di pazienti rari senza diagnosi si stima che sia circa il 6% di tutti i malati rari: “Esiste una rete dedicata anche per questi pazienti e negli ultimi anni molti progressi sono stati fatti soprattutto grazie alle innovazioni che arrivano dalla ricerca genetica”.


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Molte malattie rare sono genetiche

Perché gran parte delle malattie rare – almeno un 80% ha una base genetica – e andare a guardare lì, nel Dna, è ancora oggi uno dei capisaldi della diagnosi di queste patologie. “Se l’approccio clinico all’inizio è quello che guida il sospetto di malattia rara, gli esami strumentali di laboratorio e soprattutto quelli di genetica sono oggi fondamentali – riprende Dallapiccola – e possono essere fatti a diversi livelli”. Definire i sintomi che possano far sospettare una malattia rara è praticamente impossibile considerando la loro numerosità, ma alcuni segni sono più comuni di altri: disabilità intellettive, encefalopatie, note dismorfiche, epilessia, difetti congeniti, possono essere indicativi di una condizione genetica rara, ricorda Dallapiccola: “Il primo livello di indagine genetica è quello in cui si sottopone il paziente a un pannello di geni noti associati alle malattie rare, circa un centinaio quelli noti ormai. Il secondo livello prevede l’analisi dell’esoma, ovvero della porzione codificante le proteine del genoma, alla ricerca delle variazioni dei circa 8000 geni malattia oggi noti o di variazioni genetiche non identificate in altri geni”. Infine, il livello più avanzato dell’indagine genetica è quello che prevede di analizzare tutto il genoma, sia le porzioni codificanti che non codificanti: “Questo tipo di analisi, cosiddette di genome wide, sono molto costose e apportano solo un modesto guadagno in termini di inquadramento terapeutico. Ancora oggi l’analisi più utilizzata rimane quella dell’esoma”. In assenza di una base genetica identificabile la diagnosi di malattia si basa sulla consulenza di diversi esperti. “Lavoriamo in rete, radunando diversi centri e procedendo alla discussione di casi clinici, definendo percorsi di laboratorio che possano aiutare ad arrivare a una diagnosi”, continua Dallapiccola. “La diagnosi rimane fondamentale sempre, anche quando non si abbiano terapie da offrire ai pazienti. Oggi solo il 4-6% circa delle malattie rare note ha delle terapie specifiche”. 

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Perché la diagnosi conta, anche senza terapia

“Rimanere senza diagnosi è frustrante dal punto di vista umano, sia per il paziente che per la sua famiglia. Riuscire a dare un nome a quei sintomi consente di avere una spiegazione, rispondere alle domande del paziente, avere informazioni sull’evoluzione della malattia, ricorrere a terapie di supporto – riprende Daina – e, per le malattie a base genetica, di aver informazioni sul rischio riproduttivo, sia per eventuali fratelli che per la trasmissione ai figli”. Ma soprattutto avere una diagnosi aiuta a far luce sul meccanismo dietro la patologia, e costituisce il primo passo per lo sviluppo di terapie. I frutti della ricerca nel campo delle malattie rare compiuti in passato hanno prodotto risultati tangibili: negli ultimi venti anni, continua l’esperta, sono arrivate terapie specifiche che hanno dato speranza ai pazienti e alle loro famiglie, facendo ben sperare anche per altre malattie: “Basti pensare ad alcune malattie metaboliche dovute a carenza di proteine con l’arrivo delle terapie sostitutive, come la malattia di Gaucher o la malattia di Fabry o ancora ad alcune terapie per malattie neuromuscolari come la SMA, che oggi hanno tre diversi approcci terapeutici che hanno cambiato la storia, la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti”. Al punto che oggi, più che in passato, si avverte l’esigenza di pensare a come gestire pazienti pediatrici una volta cresciuti. In molti casi l’esordio di malattie genetiche avviene da piccoli e mancano ancora strategie di accompagnamento adeguate per questi pazienti una volta diventati adulti, ammette Dallapiccola.

Se è vero che i pazienti, per ciascuna patologia, sono pochi, investire sulle terapie per le malattie rare può avere un ritorno su un gran numero di pazienti. “Studiare le malattie rare può portare a risultati più ampi rispetto alla possibilità di trattare i pochi pazienti colpiti – continua Daina – basti pensare alla possibilità di sostituire enzimi mancanti o correggere difetti genetici con la terapia genica. Se lo impariamo in un campo, quelle delle malattie rare, poi diventa più facile adattare il modello ad altre condizioni”. Appare dunque superata l’idea che, dal momento che i pazienti sono rari, anche l’interesse delle case farmaceutiche scarseggia. Al contrario, conclude Dellapiccola, il problema oggi si è piuttosto trasformato: “Oggi il vero nodo da sciogliere è quello della sostenibilità di queste terapie”. Che possono arrivare a costare milioni di dollari.

Via: Wired.it

Credits immagine: National Cancer Institute su Unsplash