Più pianeti abitabili nell’Universo

Buone notizie per i cacciatori di pianeti abitabili, e per tutti quelli che continuano a sperare che gli alieni, da qualche parte, esistano veramente. Un nuovo studio pubblicato su Nature rivede infatti al rialzo il numero di pianeti dell’Universo che potrebbero ospitare forme di vita. Gli autori della scoperta sono un gruppo di ricercatori dell’istituto francese Pierre Simon Laplace e dell’Università di Chicago, che hanno realizzato un nuovo modello climatico con cui descrivere il cosiddetto “effetto serra auto alimentato” (o runaway greenhouse effect). I risultati del loro studio aumenterebbero di fatto l’area di Spazio intorno a una stella in cui si ritiene possibile la presenza di acqua allo stato liquido, e quindi della vita come la conosciamo.

Il runaway greenhouse effect è un processo che prende il via in presenza di livelli estremamente alti di radiazioni provenienti da una stella, determinando una serie di reazioni a catena tra la temperatura di un pianeta e l’opacità della sua atmosfera, che potenziano l’effetto serra fino a provocare la completa evaporazione degli oceani. Un fenomeno del genere sarebbe avvenuto per esempio in tempi remoti su Venere, determinando la scomparsa di tutte le masse di acqua allo stato liquido.

Studiare il fenomeno è quindi fondamentale per determinare la cosiddetta “zona abitabile” di una stella, ovvero la distanza a cui devono trovarsi dei pianeti per essere potenzialmente in grado di ospitare delle forme vita. Fino ad oggi, il processo era stato analizzato utilizzando dei semplici (si fa per dire, ovviamente) modelli monodimensionali, che tenevano conto solamente dell’intensità delle radiazioni provenienti dalla stella, della quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera (che impedisce il rilascio delle radiazioni in eccesso nello Spazio), e del conseguente effetto serra.

Nel nuovo studio, il team di ricercatori guidato da Jérémy Leconte è riuscito invece a dimostrare che il fenomeno è ben più complesso di quanto si ritenesse. Prendendo in considerazione un numero maggiore di variabili, gli scienziati hanno dimostrato infatti che fattori come le nubi, i moti convettivi dell’atmosfera, e la presenza di masse di ghiaccio ai poli possono contribuire a contrastare l’innesco dell’effetto serra auto alimentato.

Integrando tutte queste informazioni, i ricercatori hanno sviluppato un modello tridimensionale, che gli ha permesso di studiare con estrema precisione le condizioni necessarie per innescare il runaway greenhouse effect. Armati del nuovo strumento, Leconte e colleghi sono arrivati a due conclusioni importanti.

Per prima cosa, la dimensione della zona abitabile di moltissime stelle va rivista al rialzo, perché servono radiazioni più intense di quanto ritenuto finora (e quindi una distanza minore dal corpo celeste) per dare il via al fenomeno. La seconda scoperta del team di Leconte riguarda invece il nostro pianeta, e ci permette di tirare un sospiro di sollievo: sulla Terra infatti, nonostante i nostri peggiori sforzi, dovrebbe continuare a essere disponibile acqua allo stato liquido almeno per un altro miliardo di anni.

Via: Wired.it

Credits immagine: NASA/Ames/JPL-Caltech

Simone Valesini

Giornalista scientifico a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. Laureato in Filosofia della Scienza, collabora con Wired, L'Espresso, Repubblica.it.

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