Quando tremano le megalopoli

Grattacieli che si afflosciano, strade e ponti che sprofondano, centinaia, migliaia di vittime sotto le macerie, collegamenti interrotti, drammatiche emergenze sanitarie. Nell’immaginario comune sono questi gli inevitabili effetti di un evento sismico in una grande città. Eppure, secondo quanto emerso di recente al simposio internazionale sul rischio sismico nelle megacittà svoltosi all’Ictp (Centro Internazionale di Fisica Teoretica Abdus Salam) di Trieste, sotto l’egida dell’Onu, lo scenario post-terremoto di una metropoli potrebbe non essere così catastrofico: i danni alle cose e alle persone possono essere ridotti, hanno ricordato gli studiosi, se non si ignora il rischio sismico e ci si prepara ad affrontarlo. Sebbene non si possa sapere con certezza quando la terra tremerà ancora, oggi è possibile prevederne nel dettaglio gli effetti e prendere delle contromisure.

Eppure, di fronte al terremoto, come ad altri disastri naturali, la maggior parte dell’umanità è ancora seriamente impreparata. Se nei paesi industrializzati da cinquant’anni a questa parte la prevenzione ha ridotto sensibilmente le perdite umane, come l’entità dei danni economici, che non supera l’1% del prodotto nazionale lordo, altrove le cose vanno in tutt’altro modo: nei paesi in via di sviluppo i danni causati da un sisma possono ammontare sino al 40 per cento del prodotto interno lordo di una nazione.

Negli anni Cinquanta la popolazione urbana esposta al rischio sismico era equamente divisa tra mondo industrializzato e non, ma nel corso degli anni la percentuale per i paesi in via di sviluppo è andata crescendo, e nel Duemila potrebbe raggiungere l’85%. La probabilità di perdere la vita in un sisma è dunque in queste parti del pianeta ben maggiore che nei paesi industrializzati: nel 1999, delle circa novemila vittime provocate da eventi sismici, ben ottomila saranno tra le popolazioni del Terzo mondo. In parte ciò è dovuto all’addensarsi della popolazione a ridosso delle aree urbane, in siti più a rischio e in strutture più vulnerabili che in passato.

Ma il problema di fondo è che il pericolo non è percepito come tale: il terremoto è un’evenienza relativamente rara e, specie nei paesi più poveri, appare alla gente e agli amministratori un rischio trascurabile, che non merita di distogliere le già scarse risorse da altre emergenze sociali, più visibili e impellenti. Eppure, anche in queste situazioni, la prevenzione e la gestione dell’emergenza possono essere organizzate coinvolgendo le risorse locali e mettendo a frutto conoscenze e tecnologie sviluppate nei paesi industrializzati.

Lo dimostra l’esperienza di Quito, in Equador, dove questo tipo di collaborazione ha permesso per la prima volta la formulazione di un piano per la gestione del rischio sismico. Questo, con minime variazioni, è stato poi applicato in Nepal, dove sono state create ad hoc delle organizzazioni non governative impegnate nell’opera di informazione e nella raccolta di fondi, e adottate dall’Idndr, il programma Onu per la riduzione dei disastri naturali, in otto città in tutto il mondo. La collaborazione internazionale tra studiosi e istituti di ricerca e l’impiego delle risorse locali è stata alla base anche del progetto Unesco (che prevede fra l’altro la creazione un grande archivio elettronico degli eventi sismici) per la previsione del rischio in alcune grandi città di diverse regioni del pianeta come Cina, America latina, Madagascar, Europa orientale e Italia.

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