Un incontro pericoloso

Alle 3 e 21 dello scorso 6 settembre la Sicilia ha rischiato grosso. Un terremoto dell’ottavo grado della Scala Mercalli ha colpito la maggiore isola del Mediterraneo. L’epicentro, localizzato a 40-50 chilometri a nord-est di Palermo, in mare, a una profondità di 18-20 chilometri, è avvenuto su una fascia crostale orientata parallelamente alla costa settentrionale della Sicilia e, più specificatamente, fra Alicudi e Ustica. Una scossa causata da un processo di subduzione attiva che interessa l’area tirrenica meridionale, scatenando, periodicamente, eventi sismici di medio-alta intensità. In altre parole dallo Ionio fino alle isole Eolie e Ustica (da sud-est verso nord-ovest) la crosta del continente africano si “immerge” sotto quella europea, viaggiando a una velocità di circa un centimetro l’anno. E la placca africana, pur spostandosi così lentamente, carica di energia alcune zone della crosta terrestre che, rompendosi, generano terremoti. “Fortunatamente”, dice Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), “l’epicentro della scossa registrata in Sicilia è stato in mare; se fosse stato sulla terraferma avremmo avuto conseguenze confrontabili con quelle in Umbria nel 1997 e, forse, anche peggiori”. L’ultimo evento sismico, con epicentro sempre nel basso Tirreno, avvertito distintamente dalla popolazione siciliana, risale al 5 gennaio 1994. La magnitudo allora fu di 4,9 della scala Richter, ben al di sotto del 5,6 di adesso. Anche quello fu un terremoto di subduzione, provocato dalla placca africana che si incunea sotto quella europea. Nel ‘94 il sisma è avvenuto a circa 300 chilometri di profondità. E in passato, nella zona i sismografi hanno registrato sismi anche a profondità superiori ai 400 chilometri. Oggi, l’interrogativo collettivo è quello di sapere cosa potrà accadere. Alessandro Amato, direttore del Centro Terremoti dell’Ingv, che dalla sala sismica ha seguito le prime fasi dell’evento del 6 settembre, non esclude alcuna ipotesi: “E’ possibile che l’evento sismico inneschi un altro segmento della fascia sismogenetica a Nord della Sicilia, provocando una nuova scossa, anche più forte di quella iniziale”. È stato proprio uno studio condotto due anni fa da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia a ipotizzare che un terremoto possa scatenare o fermare altri eventi sismici in aree vicine. “Tutto dipende”, dice Amato, “dal trasferimento dell’energia liberata dalla rottura di un tratto della faglia. Tuttavia storicamente nell’area del basso Tirreno non sono state mai registrate scosse catastrofiche, anche se forti. Pertanto, al momento, non ci sono prove che ci si trovi in una situazione di grave pericolo”. Eppure, nonostante i toni cauti dei dirigenti di ricerca dell’Ingv, all’indomani del sisma, squadre di esperti sono partite da Roma alla volta di Palermo per verificare con l’ausilio di sofisticate apparecchiature, l’andamento della situazione. “I sensori disponibili in loco”, dice Amato, “sono ottimi per registrare terremoti e, quindi, per gli scopi di protezione civile; se vogliamo saperne di più su cosa sta avvenendo abbiamo bisogno di un monitoraggio più fine e, quindi, di apparecchiature più precise e sensibili”. Non è, infatti, un caso se “Geostar” – il robot degli abissi, capace di registrare parametri chimico-fisici a 3.500 metri di profondità, terremoti compresi – a cavallo fra il 2000 e il 2001 è stato posizionato, a una profondità di oltre 2000 metri, proprio a largo di Ustica, per la prima prova sperimentale nel mondo. I dati, rilevati durante il test, sono in fase di elaborazione e presto saranno messi a disposizione degli studiosi. “Geostar” dovrà confermare o smentire, fra l’altro, un’ipotesi di grande rilevanza per la comprensione dei fenomeni geodinamici del basso Tirreno: la verifica dell’aumento di temperatura del fondo marino. Se l’incremento venisse confermato vuol dire che il mantello sta risalendo, fagocitando, seppur lentamente, la crosta terrestre.

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