Un satellite per guardiano

Allagamenti, frane, smottamenti, valanghe, slavine, incendi. E palazzi che si accartocciano su se stessi, all’improvviso. E’ l’Italia dei disastri che ogni tanto – drammaticamente – sale alla ribalta della cronaca. Ma lontano dai riflettori c’è chi che cerca di prevenire queste calamità e studia come affinare le tecniche di soccorso. Con l’aiuto della tecnologia. Un esempio è quello della palazzina di villa Jacobini crollata lo scorso anno a Roma. Morirono ventisette persone. “Il satellite aveva registrato, alcuni mesi prima del collasso, i cedimenti strutturali. Dai tabulati risultava che il palazzo si era mosso di qualche centimetro, a differenza degli edifici che lo circondavano”, racconta il professor Fabrizio Ferrucci, geofisico dell’Università della Calabria, e collaboratore del nuovo progetto satellitare in grado di tenere sotto controllo gran parte del territorio italiano.

Avviato dalla Protezione Civile (http://www.protezionecivile.it/), insieme all’Agenzia Spaziale Italiana (http://www.asi.it/) e all’Agenzia Spaziale Europea (http://www.esa.int), per migliorare sempre di più la sicurezza della popolazione, il monitoraggio ha dato già i suoi primi risultati positivi. Solo nella città di Roma i palazzi che il sistema è in grado di osservare sono decine di migliaia. “I satelliti sono potentissimi. Possono vedere tutto, riescono a registrare anche variazioni dell’assetto di un edificio inferiori ad un centimetro. Ogni 35 giorni – tanto è il tempo che impiega il satellite a compiere un giro intorno alla Terra – riusciamo a monitorare quasi cento milioni di obiettivi: abitazioni, edifici pubblici, ma anche zone a rischio come quelle vulcaniche”, continua Ferrucci, “al momento, però, siamo solo in fase sperimentale. Il vero problema per l’attuazione del progetto è l’automatizzazione della lettura dei dati, che sono miliardi.”

Le moderne tecnologie vengono impiegate non solo nella prevenzione dei disastri, ma anche nelle operazioni di soccorso. A Foggia, dopo il crollo dell’edificio di via Giotto, la Protezione Civile ha utilizzato per la prima volta un’apparecchiatura in grado di scoprire, attraverso una telecamera che registra le fonti di calore (rilevamento termico all’infrarosso), le persone ancora in vita tra le macerie. Accanto a queste attrezzature sono state utilizzati anche i geofoni, strumenti che riescono a percepire grazie a degli amplificatori suoni e movimenti altrimenti impercettibili. In questo caso, come in altri, i soccorritori si sono trovati di fronte anche ad una vera emergenza sanitaria, da affrontare con tecniche e procedure ad hoc. Per questo sono stati istituiti su gran parte del territorio italiano corsi di formazione in Medicina delle catastrofi, come quello universitario da poco avviato presso l’ateneo di Perugia, o il Master promosso dal Cemec (http://www.diesis.com/cemec/), Centro Europeo di Medicina delle Catastrofi di San Marino. “La capacità di identificare il rischio specifico per ogni disastro, le nozioni di igiene e di epidemiologia, la conoscenza dei supporti di ordine tecnico e l’addestramento con simulazioni sul campo sono gli aspetti che costituiscono la Medicina delle catastrofi”, spiega Corrado Manni, presidente del Cemec. Che ogni anno organizza corsi internazionali di formazione e aggiornamento, insieme all’Unione Europea (http://europa.eu.int/) e all’Organizzazione Mondiale della Sanità (http://www.who.org/).

Non solo il personale sanitario, ma anche i cittadini devono saper reagire nei casi di emergenza. “E’ importante che la popolazione sappia come deve comportarsi. Ma non solo. Deve saper dare, prima dell’arrivo dei soccorsi ufficiali, i primi aiuti a chi ne ha bisogno”, continua Manni. Secondo gli esperti, infatti, la prevenzione e i primi elementi utili di pronto soccorso dovrebbero essere insegnati a partire dalle scuole medie. Come è avvenuto la scorsa settimana in occasione dell’esercitazione “Vesuvio ‘99”, quando gli operatori della Protezione Civile hanno svolto lezioni nelle scuole dei diversi comuni, e hanno distribuito diecimila copie di un fascicolo che spiega cosa fare in caso di eruzione. Un piano complicato che prevede l’evacuazione di 80.000 persone – tante quante ne contiene lo stadio Olimpico di Roma – nell’arco di dieci ore. “Ora siamo sicuri che con le esercitazioni e le informazioni tutta la popolazione riuscirà ad allontanarsi per tempo”, assicura Alberto d’Errico, ingegnere della Protezione civile, “e se arriverà la lava del Vesuvio, non ci sarà nessuno ad aspettarla”.

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