Perché gli animali non dovrebbero avere padroni

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[2001] Poco più di cento anni di scienza hanno reso incerta la tradizionale linea di distinzione tra uomo e animale. I non umani non sono più considerati degli automi, delle macchine, come pensava Cartesio, e in qualche modo sono entrati nelle preoccupazioni morali della nostra epoca. Se gli animali sono creature senzienti come noi, capaci di emozioni e di comportamenti sociali complessi, è giusto continuare a trattarli in modo che riterremmo ripugnante per un essere umano? Con l’allarme mucca pazza (Bse) e poi quello afta epizootica, per esempio, abbiamo visto scene di stermini di massa, fosse comuni, roghi che ci hanno ricordato altri massacri compiuti da umani su altri esseri umani. A livello filosofico, specie nei paesi anglosassoni, il dibattito sui rapporti etici tra umani e non umani ha portato alla critica dello specismo – termine coniato volutamente dai sostenitori dei diritti animali sul calco di razzismo e sessismo – e ora anche sul piano sociale comincia a porsi il problema di un codice etico di comportamento nei confronti degli animali. Tra le diverse proposte, talvolta mosse da posizioni eccentriche o da visioni metafisiche dei rapporti tra umani e non umani, si distingue, quella che propone di includere i non umani tra i soggetti di diritto. Questa posizione si colloca nel solco della tradizione filosofica liberal-illuministica e trae le sue conclusioni dal principio di eguaglianza affermato con la Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. Abbiamo chiesto a Paola Cavalieri, direttrice della rivista Etica & Animali e promotrice insieme a Peter Singer del Great Ape Project, di spiegarci le ragioni di questa posizione radicale.

Dottoressa Cavalieri, per il paradigma morale contemporaneo gli animali contano qualcosa?

“Sì, però esiste una gerarchia. E questo è il problema. Mi spiego: io e lei siamo agenti morali perché il nostro comportamento può essere giudicato dal punto di vista morale, e siamo anche pazienti morali nel senso che possiamo essere trattati bene o male. Poi ci sono degli esseri che sono solo pazienti morali: i bambini piccoli, i disabili mentali umani e buona parte dei non umani. Questi ultimi però sono dei pazienti morali di seconda categoria, nel senso che noi possiamo fare loro delle cose che non riterremmo lecito fare agli esseri umani: utilizzarli per sperimentare i farmaci, per esempio, con un calcolo di tipo massimizzante dei benefici per altri esseri. E sino a sacrificarne non solo la vita, la libertà e il benessere ma anche l’essere stesso radicalmente. Faccio questo esempio perché offre la possibilità di un parallelo con la sperimentazione umana, che è fatta con criteri totalmente diversi. Poi ci sono le pratiche, l’allevamento per cibo, lo sterminio di massa con la caccia, l’uso per divertimento, inammissibili quando si tratta di esseri umani”.

Come si giustifica questo diverso trattamento?

“Essenzialmente sulla base di due argomenti: se qualcuno ci chiede perché trattiamo i non umani in un modo radicalmente diverso da come trattiamo gli umani, la prima risposta è: perché non sono umani! Che, presa alla lettera, vuol dire: perché non sono membri della specie Homo sapiens. In questo modo, però, si sposta il discorso sul piano biologico, cosa che filosoficamente non è accettabile: se si parla di etica non si parla di biologia. Classificazioni puramente biologiche non possono essere importate in ambito etico e ricevere valore di per sé. Non solo. La non accettabilità di una classificazione basata su caratteristiche biologiche è stata già affrontata per quanto riguarda gli umani, nel caso della razza e del sesso. Per cui non si può attribuire peso a caratteristiche biologiche, e soprattutto sulla loro base non possiamo discriminare e costruire livelli di status morale. Quindi, in primo luogo, la differenza biologica in sé non è moralmente rilevante; in secondo luogo, lo specismo si trova in contraddizione con la critica ai pregiudizi intra-umani. Allora vediamo come la prima difesa, cioè che noi possiamo trattare gli animali non umani come non tratteremmo mai un umano, è inaccettabile. Lo è in sé, dal punto di vista dell’etica come disciplina, e lo è perché è incoerente rispetto alla moralità corrente, che è egualitaristica a livello intra-umano. La seconda risposta che si può dare è invece una sorta di arretramento: si dice che la linea invalicabile tra Homo sapiens e tutti gli altri animali si traccia sulla base della specie solo per comodità e che, in realtà, ciò che la giustifica sono alcuni aspetti psicologici, caratteristiche di tipo cognitivo, emozionale, e così via. Dunque, in quanto umani, il nostro livello cognitivo è di tipo superiore, e questo autorizza un trattamento differenziato. Il problema di questa difesa è che sulla base di simili qualità non si può tracciare una linea tra tutti gli umani e i non umani. Infatti, esistono degli umani, come i disabili mentali, i comatosi, gli anencefalici, che si trovano a un livello cognitivo addirittura inferiore rispetto a molti animali. Se il criterio cognitivo fosse valido, essi dovrebbero essere esclusi dal novero dei pazienti morali di prima categoria mentre dovrebbero essere compresi alcuni animali non umani. E questo, ovviamente, la moralità corrente non è disposta a farlo. C’è quindi un secondo livello di incoerenza nel tentativo di tracciare la linea tra pazienti morali di prima categoria, gli umani, e quelli di seconda categoria, i non umani. Se la critica dello specismo, come io credo, è fondata, la comunità morale è indifendibile: non si può dividere l’ambito dei pazienti morali sul confine di specie”.

A livello teorico non ci sarebbero quindi ragioni per difendere la separazione tra pazienti morali umani e non umani. Ma nella pratica, come pensa che la comunità morale possa essere riformata?

“Una possibilità sarebbe quella di alzare la barra e dire: solo quegli esseri che hanno capacità cognitive possono godere di uno status morale pieno, tutti gli altri si trovano invece al di fuori di questa sfera privilegiata e possono essere oggetto di sperimentazione, e così via. In questo caso, almeno le grandi scimmie, ma probabilmente anche i delfini, le balene, gli elefanti, rientrerebbero nel club dei privilegiati. I disabili mentali gravi, gli anencefalici, i comatosi ecc. – non dico i bambini piccoli per non affrontare il problema della potenzialità che è controverso – tutti gli umani che non potranno mai recuperare o avere queste caratteristiche dovrebbero essere considerati pazienti morali di seconda categoria. Con tutto ciò che ne consegue: essere impiegati nelle sperimentazioni e, perché no, anche essere allevati per cibo”.

E’ una prospettiva inquietante. Esiste un’ipotesi alternativa?

“Sì, fare il contrario: domandarsi se davvero queste caratteristiche, poniamo la razionalità e l’autocoscienza, quelle più spesso citate, abbiano un peso morale tale da attribuire uno status superiore agli esseri che le possiedono. Qui il discorso potrebbe essere molto diretto ma, avendo a che fare con un paradigma profondamente radicato, preferisco usare un discorso ad hominem, partire da premesse condivise dai miei interlocutori e svilupparle per vedere cosa effettivamente ne deriva. In modo che non si possa dire: io non accetto il punto di partenza delle tue argomentazioni e quindi nemmeno le loro implicazioni. E il punto di partenza più condivisibile è la dottrina dei diritti umani, oggi accettata universalmente, secondo la quale tutti gli esseri umani hanno uguali diritti fondamentali. Questi sono in primo luogo diritti negativi, alla non interferenza: il diritto a non essere torturati, a non essere imprigionati e a non essere uccisi. Anche se poi sono stati sviluppati diritti di tipo positivo, il cuore della dottrina dei diritti umani è di tipo negativo: è il diritto a non subire certe cose attribuito a tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro livello cognitivo. L’egualitarismo di questa dottrina è espresso proprio nel fatto che dal bambino intellettualmente disabile ad Einstein non c’è differenza sul piano dei diritti umani. Si tratta, inoltre, di diritti di tipo istituzionale, che possono essere violati dagli Stati, dalle polizie e dalle costituzioni qualora siano discriminatorie”.

E su quale base si può affermare che tutti gli esseri umani indipendentemente dal loro livello cognitivo o emotivo hanno uguali diritti al benessere, alla libertà, alla vita?

“Una delle risposte più comuni in filosofia politica è che questi diritti scaturiscono dal fatto che siamo in grado di guidare la nostra vita sulla base di principi scelti da noi. E’ evidente che i filosofi che fanno questo discorso, astratto e generale, non si occupano di quegli umani ormai definiti dalla letteratura “non paradigmatici”. Se lo facessero, infatti, le loro affermazioni non sarebbero sostenibili! Però, e ritengo che sia stato un fatto dovuto, dopo le grandi dichiarazioni generali delle Nazioni Unite, sono state formulate altre dichiarazioni in difesa specifica degli umani non paradigmatici. Proprio perché sono più deboli, più vulnerabili e le dichiarazioni generali non sono sufficienti a proteggerli. Questo mostra quanto noi difendiamo l’idea che il livello cognitivo-emotivo non sia fondamentale ma che lo sia difendere i diritti di coloro che sono cognitivamente ed emotivamente meno sviluppati”.

La difesa basata su caratteristiche cognitive considerate superiori, quindi non varrebbe, per tutti gli umani?

“No, e alcuni filosofi se ne sono parzialmente accorti. Nel senso che, pur facendo ancora appello alla appartenenza di specie, quando hanno dovuto giustificare davvero l’attribuzione a tutti gli uomini di eguali diritti fondamentali, hanno fatto appello ad altre caratteristiche, e non alla razionalità o alla autonomia di kantiana memoria, alla capacità di astrazione. Si sono concentrati su quello che è in fondo il cuore del discorso etico: il fatto di poter godere del benessere e della libertà, di avere una vita che può andare meglio o peggio a seconda della possibilità che i propri interessi vengano frustrati o soddisfatti. Naturalmente, se ci si concentra su benessere e libertà, la vita è strumentalmente fondamentale: se non si è vivi non si può godere né di benessere né di libertà. Il discorso allora diventa questo: se ciascun essere intenzionale ha degli scopi da raggiungere, e se l’avere diritto a un benessere fisico, a non essere mutilato, a non essere imprigionato, ucciso, è prerequisito per il perseguimento di tali scopi, non è rilevante a quale livello essi si pongano. Gli scopi, per fare un esempio, del bambino affetto da sindrome di Down sono altrettanto importanti per lui degli scopi di Einstein per Einstein. Un’etica che prenda sul serio la soggettività deve difendere questi scopi e i prerequisiti che ne garantiscono il perseguimento. E ciò significa estendere i diritti fondamentali a molti non umani. Senz’altro ai mammiferi e agli uccelli, probabilmente a tutti i vertebrati. Senza però sbilanciarsi: i discorsi sono aperti, complessi, come del resto lo sono anche le valutazioni dei quozienti intellettivi degli umani. E soprattutto ci sono problemi di carattere fattuale. Ma indubbiamente per me, molti animali non umani che noi usiamo correntemente come mezzi per i nostri fini, che mutiliamo, priviamo del benessere, che uccidiamo, rientrano nella difesa garantita dai diritti umani. L’implicazione fondamentale di questo discorso è che tutti gli stati che difendono l’eguaglianza umana devono estenderla oltre i confini della nostra specie. E in particolare devono farlo nella forma di diritti negativi fondamentali per un grandissimo numero di non umani. Sarà una cosa graduale, come è stato per gli umani. Ma la cosa fondamentale, quella che rompe la dicotomia di base, è l’eliminazione dello status di proprietà dei non umani. Perché solo essendo proprietà questi esseri possono essere assoggettati ai trattamenti che noi riteniamo ripugnanti per gli umani. E se guardiamo alla storia, l’abolizione della schiavitù non è stato altro che l’abolizione dell’uso istituzionalizzato di esseri umani per i fini altrui. Questo è il primo passo: i non umani non devono essere oggetti di diritto ma soggetti di diritto. E non possono essere più beni di proprietà. E questo, istituzionalmente, comporta l’abolizione di tutte quelle pratiche di sfruttamento oggi permesse dal loro status di proprietà. Questo certo non comporterebbe automaticamente il raggiungimento dello status pieno di agenti morali dei non umani. Del resto ciò non avvenne nemmeno per i negri americani con l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, dove il processo di emancipazione è durato almeno sino agli anni Sessanta dello scorso secolo”.

Come è nato il Progetto Grande Scimmia?

“L’idea è stata quella di individuare un anello debole nella catena da cui partire chiedendo un’implementazione entro breve delle proposte morali avanzate. E i grandi antropoidi non umani, gli scimpanzé, gli oranghi, i gorilla, erano i candidati perfetti perché anche lo specista più inveterato di fronte a uno scimpanzé comincia domandarsi se quello che crede sia giusto. Al Progetto, uscito per la prima volta a Londra con il titolo Equality beyond humanity, hanno collaborato antropologi e filosofi ma anche molti scienziati, primatologi ed etologi, che hanno tratto implicazioni morali da ciò che avevano appreso studiando sul campo. Dobbiamo trattarli come noi stessi, come persone e dare loro dei diritti fondamentali, hanno detto chiaramente”.

Quali risultati avete ottenuto?

“Il nostro obiettivo sarebbe arrivare alle Nazioni Unite e ottenere una dichiarazione che estenda i diritti fondamentali a scimpanzé, oranghi e gorilla. Ma ovviamente la strada è ancora lunga, anche se qualche passo avanti è stato fatto. In Gran Bretagna, per esempio, è stata proibita la sperimentazione sulle grandi scimmie sulla base del fatto che le loro caratteristiche cognitive ed emotive lo impediscono. E’ stata una svolta molto importante, e anche se forse i burocrati inglesi non l’hanno colto, è caduta la barriera della specie. Poi c’è stata la Nuova Zelanda, dove si è raggiunta una vittoria parziale, nel senso che le grandi scimmie sono ora considerate esseri a parte, non rientrano più nella legislazione che riguarda tutti gli altri animali. E ci sono delle norme per quanto riguarda il loro trattamento estremamente progressiste. Però non è passato il principio dei criteri paraumani. Del gruppo di lavoro impegnato in questa battaglia, fanno parte diversi scienziati che hanno proposto una riclassificazione di scimpanzé e gorilla, restano ancora fuori gli oranghi, nel genus Homo e hanno steso un nuovo progetto di legge, che chiede uguali diritti per tutti gli ominidi. Il problema è che l’approvazione di questi principi sarebbe un vero e proprio cavallo di Troia, e anche gli avversari se ne accorgono. In Nuova Zelanda, per esempio, c’è stata una forte opposizione degli allevatori, che percependo il rischio che questa operazione comportava, sono riusciti a mitigare i termini della legge. Ma con il nuovo progetto di legge siamo già ripartiti alla carica, e ritengo, con maggiori opportunità di successo. Sull’implementazione quindi il progetto va avanti, e se si riesce a far considerare alcuni altri esseri come persone, avremo abbattuto uno dei principali ostacoli: la barriera di specie. Sul piano sociale, certo i problemi sono tanti. La storia però riserva delle sorprese: in America, chi sosteneva, contrariamente alle tante tesi gradualiste, che i neri dovessero essere liberati immediatamente non prevedeva la guerra di secessione, una delle cui conseguenze, a prescindere dalle intenzioni dei combattenti, fu l’abolizione della schiavitù. Anche la pena di morte è stata eliminata in una serie di Paesi grazie all’azione di una minoranza illuminata e illuministica che dall’alto, all’indomani della seconda guerra mondiale, ha imposto un principio fondamentale che poi è diventato parte del patrimonio morale comune”.

Foto di Alexas_Fotos da Pixabay

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