La libertà si è evoluta? L’ipotesi azzardata da Dennet

Il fatto che di libertà, libero arbitro, determinismo sia densa la storia del pensiero non solo occidentale, dalla sua nascita fino a oggi, non ha spaventato Daniel Dennett nell’impresa che lo ha condotto alla realizzazione di questo volume. Nella versione italiana di “Freedom Evolves” (Daniel C. Dennett, L’evoluzione della libertà
Raffaello Cortina editore, 2004, pp. XIV-453, euro 29,00) l’autore inscrive la questione della libertà umana all’interno di un paradigma che dall’ambito suo proprio (la biologia, le scienze naturali) ha “colonizzato” discipline anche molto lontane, secondo una tendenza di moda. Questo è stato possibile anche grazie a scienziati come Richard Dawkins che, ne “Il gene egoista”, applica alle storie (quelle narrate, anche oralmente), ma anche alle idee, la teoria dell’evoluzione. La teoria viene usata come analogia descrittiva che ambisce a spiegare il comportamento evolutivo – sia esso biologico o culturale – secondo i criteri della variazione (molti soggetti differenti popolano un ambiente), dell’eredità (i soggetti sono in grado di riprodursi e di creare repliche di se stessi) e dell’adattamento (l’ambiente circostante, interagendo con le caratteristiche dei soggetti, ne influenza il numero). A parte il fatto che tra questi tre elementi ci sembra manchi l’errore (utile a spiegare la variabilità e i meccanismi di selezione), prendere a prestito pedissequamente una teoria comporta inevitabili rischi e rinunce.

Non è questa la sede per una disamina puntuale delle affermazioni di Dawkins, ma sembra che anche Dennett in certi momenti scivoli per la stessa china: applicare i criteri evoluzionistici che fanno da sfondo al volume alla libertà umana (nei suoi aspetti più “nobili” come la morale e la cultura, appunto) passando attraverso il linguaggio – come veicolante principale di morale e cultura – sembra quanto meno azzardato. Soprattutto perché a oggi manca una vera e propria spiegazione evoluzionista anche solo per il linguaggio, grazie al quale siamo diventati ciò che siamo. Anziché conciliare libertà e determinismo secondo la via percorsa dai molti che, nel passato, hanno visto il margine del non determinismo all’interno dei fenomeni naturali stessi (dalla fisica quantistica a certi inspiegati fenomeni biologici), Dennett propone una pacifica convivenza dei due termini all’interno del paradigma evoluzionista, responsabile di quegli organismi “proto” capaci di reagire positivamente all’ambiente per sopravvivere: a partire da quella reazione positiva – che costituisce per l’autore una “protodecisione” – si sarebbe evoluta la libertà per come oggi noi la conosciamo.

Quasi a giustificazione della sua impresa, l’autore in fondo al libro sostiene che “la libertà umana non è un’illusione; è un fenomeno oggettivo, distinto da tutte le altre condizioni biologiche e presente in una sola specie, noi. […] La libertà umana è reale – reale quanto il linguaggio, la musica e il denaro […]. Ma come il linguaggio, la musica, il denaro e altri prodotti della società, la sua persistenza è influenzata da quello che noi crediamo di essa. Perciò, non è sorprendente che i nostri sforzi di studiarla imparzialmente vengano distorti dalla preoccupazione che noi potremmo goffamente uccidere l’esemplare sotto il microscopio” (pp. 404-5). Una preoccupazione da ritenere senz’altro legittima e condivisibile.

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