Appunti da una Conferenza

MALTA, ottobre. “Empty Talk, Empty Seas” (parole vuote, mari vuoti): recitava così lo striscione issato da Greenpeace sulla facciata dell’edificio che ospitava l’undicesima Conferenza della Convenzione di Barcellona. Un attimo dopo il servizio d’ordine lo aveva già ammainato. E’ stata un’azione simbolica per denunciare l’esasperante lentezza con cui procede l’applicazione della Convenzione per la difesa del Mediterraneo dall’inquinamento, sottoscritta venticinque anni fa da una ventina di paesi e mai entrata in vigore. Intanto nell’aula si dibatteva di procedure, priorità di obiettivi, esiguità del budget, ripartizione di fondi. L’impressione è che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’insofferenza degli ambientalisti per la pluridecennale attesa di azioni concrete per la salvaguardia del Mediterraneo non sia affatto condivisa dai delegati, gente avvezza ai tempi lunghi della politica e della “concertazione”.

Qualche segno di insofferenza si avvertiva fra i rappresentanti delle Ong (le organizzazioni non governative come alcuni istituti di ricerca e associazioni ambientaliste), presenti come osservatori senza diritto di voto. Chi, ricercatore o militante ambientalista, è abituato a impegnarsi sul campo, di fronte all’interminabile sequenza di interventi veniva colto da sconforto. “Che ci stiamo a fare qui?”, si domandava Renato Covacci, direttore generale dell’International Marine Centre di Oristano (http://www.imc-it.org), “sprechiamo il nostro tempo e il denaro dei contribuenti in discussioni inconcludenti”. Poi aggiungeva: “In verità siamo qui a difendere le ragioni della ricerca, per dare un fondamento scientifico alle misure di tutela e salvaguardia dell’ambiente marino”.

“L’impressione generale in queste conferenze – è il commento del biologo marino Ezio Amato, delegato dell’Icram (Istituto di ricerca applicata al mare – http://www.icram.org) – è che si navighi in un mare di chiacchiere e carte prive di reale efficacia. Ma non è proprio così. La concertazione è infatti l’unico modo per arrivare a stabilire delle norme a tutela dell’ambiente marino che abbiano un fondamento scientifico e che siano accettate da tutti i paesi interessati”.

In effetti non è che ci sia da essere soddisfatti, considerando il ritmo a cui si procede nella concertazione degli accordi e nella loro ratifica da parte dei singoli Stati. La Convenzione sottoscritta nel 1975 a Barcellona è stata infatti emendata nel’95, e così buona parte dei protocolli che la integrano, per allargare il suo raggio di azione alla tutela e alla valorizzazione di tutte le risorse di quest’area. Di conseguenza, è ricominciata la trafila delle ratifiche degli accordi da parte di tutti i paesi che li avevano sottoscritti. E sino allo scorso settembre non si era raggiunto il numero minimo affinché la Convenzione, e i suoi protocolli, potessero entrare in una fase operativa. Solo quattro paesi, Croazia, Principato di Monaco, Spagna e Tunisia (unico paese quest’ultimo ad aver ratificato tutti i protocolli) lo avevano fatto. Nel corso della conferenza, però, l’Italia e Malta hanno annunciato di aver proceduto alla ratifica e di aver avviato l’iter di notifica ufficiale. Ormai, quindi, l’entrata in vigore della Convenzione e di alcuni dei suoi protocolli – quelli sull’affondamento di rifiuti, sull’inquinamento da terra e sulle aree protette e la biodiversità – è questione di mesi.

Il nuovo millennio potrebbe così aprire una nuova fase per il Mediterraneo. In verità, il passaggio all’azione nella tutela dell’ambiente marino, delle sue acque e della sua biodiversità, si fa di giorno in giorno più urgente per la costante crescita della pressione ambientale, dovuta anche ai processi di sviluppo dei paesi della riva sud. “Purtroppo”, ha ricordato Claudio Falasca, delegato Cnel (http://www.cnel.it) alla Conferenza di Malta, “anche quando le convenzioni vengono ratificate, la loro applicazione non è un fatto banale”. Non basta infatti che uno Stato si doti di leggi e di norme adeguate ma deve disporre anche delle strutture per la loro applicazione. Si tratta di processi complicati, spiega Falasca, che possono decollare solo se vengono coinvolte le forze economiche. “Il mondo imprenditoriale europeo ha interesse che la convenzione venga recepita e applicata da tutti i paesi che l’hanno sottoscritta. La tutela dell’ambiente ha dei costi per gli imprenditori che operano nell’Ue, che sono soggetti a norme restrittive in materia di inquinamento e subiscono la concorrenza di chi invece non ha alcuna limitazione in questo senso. Ma anche le organizzazioni sindacali, che hanno a cuore la salute dei lavoratori, e dunque il rispetto delle norme di sicurezza”.

In questo senso, ha detto il sottosegretario all’Ambiente Valerio Calzolaio, “a Malta si è cominciato a precisare la funzione della commissione per lo sviluppo sostenibile, della quale fanno parte, anche rappresentanti delle comunità cittadine, organizzazioni non governative, istituti di ricerca e associazioni ambientaliste. “Nessuna politica ambientale e di cooperazione può avere successo senza coinvolgere la società civile. Non basta l’impegno dei governi ma bisogna coinvolgere tutte le comunità che vivono sul Mediterraneo”.

Paolo Guglielmi, responsabile per il Wwf International (http://www.panda.org) del Progetto Mediterraneo, osservava con un cauto ottimismo: “Sono più di dieci anni che partecipo agli incontri delle parti contraenti ed è la prima volta che vedo una delegazione italiana così nutrita, con rappresentanti di tutti i ministeri e degli istituti di ricerca coinvolti. Per la prima volta l’Italia dimostra di aver compreso l’importanza del problema e la necessità di confrontarsi con gli altri paesi mediterranei per tutelare l’ambiente marino”.

Un interessamento opportuno, non foss’altro che per il fatto che il nostro Paese si trova in testa, dopo la Francia, nella lista dei finanziatori della Convenzione, nettamente staccata dagli altri paesi. Un apporto forse giustificato dal fatto che si tratta di paesi industrializzati, che dunque inquinano di più? “Non direi – ha spiegato Ezio Amato – anche perché l’Italia si è ormai dotata di norme restrittive in materia di inquinamento. E se è in un certo senso giusto che un paese ricco contribuisca in misura maggiore di uno in via di sviluppo è anche vero che un paese non certo povero come la Libia, che ha tratto di costa molto più ampio del nostro, contribuisce in misura irrisoria”.

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