Covid, perché si possono riaprire le scuole

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(Foto: Kimberly Farmer on Unsplash)

È un altro dei tanti paradossi di questo 2020. Se normalmente nel mese di giugno si parla di vacanze, mare ed estate, stavolta il mondo va alla rovescia: uno dei dibattiti più accesi delle cronache di questi giorni riguarda infatti la riapertura delle scuole, i cui battenti sono stati chiusi tre mesi fa per arginare la diffusione della pandemia di Covid-19. I pareri che si ascoltano in giro e si leggono sui social e sulle pagine dei giornali sono i più disparati: c’è chi ritiene che riaprire le scuole sia da incoscienti, chi è orientato per approcci ibridi (turnazione degli alunni in classe o didattica mista, in presenza e da remoto), chi vuole distanziare i banchi di scuola e dotarli di barriere in plexiglass, chi è convinto che i più giovani non rappresentino alcun pericolo di contagio. Come per tante altre questioni legate all’epidemia in corso, c’è da premettere che effettivamente nessuno, al momento, ha una risposta certa, definitiva e univoca. Anche se, in questi mesi, la scienza è riuscita a mettere insieme un po’ di evidenze: alcune più solide, altre meno, ma nel complesso sufficienti a farsi un’idea del rapporto rischi/benefici derivante dalla riapertura delle scuole. Eccone una summa.

La prima domanda da porsi è se e quanto, effettivamente, i giovani e i giovanissimi siano meno a rischio di infezione. Per rispondere, Stéphane Paulus e Else Bijker, docenti di pediatria alla University of Oxford, hanno guardato a un po’ di dati, cominciando dall’Islanda, un paese in cui il 6% della popolazione è stato sottoposto a screening nelle primissime fasi della pandemia, per un totale di 22.279 persone testate, come riportato in uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine. Nel sottogruppo di persone che comprendeva i soggetti con sintomi, quelli provenienti da aree a rischio e quelli che erano entrati in contatto con persone contagiate, il 6,7% dei bambini sotto i 10 anni è risultato positivo, rispetto al 13,7% degli over 10. In un sottogruppo casuale, invece, tutti gli under 10 sono risultati negativi, mentre lo 0,8% degli altri è risultato negativo.

L’altro campione esaminato da Paulus e Bijker ci riguarda più da vicino: è quello relativo al comune di Vo’ Euganeo, dove l’86% della popolazione è stato sottoposto a screening dopo lo scoppio del primo focolaio. In questo caso, tutti i 217 i bambini sotto i 10 anni sono risultati negativi e l’1,2% dei 250 ragazzi tra gli 11 e i 20 anni è risultato negativo. Per confronto, il 3% degli over 21 è risultato positivo.

Anche i dati che provengono dalla Cina sono dello stesso tenore. Uno studio, in particolare, si è concentrato sulla trasmissione del virus di 105 pazienti positivi ai loro 392 conviventi: ne è emerso che il rischio di contagio, per gli adulti, si aggira intorno al 17%; per i bambini invece è inferiore al 4%. E ancora: i dati derivanti dalle attività di contact tracing svolte a febbraio nella provincia delle Hunan hanno mostrato che il 6,2% dei ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni ha contratto il virus dopo essere stato in contatto con un soggetto positivo; per il resto della popolazione la percentuale si è attestata al 10,4%. Informazioni che lascerebbero pensare, dunque, che i bambini e ragazzi siano significativamente meno suscettibili all’infezione rispetto agli adulti.

Anche Guido Silvestri, in una delle sue Pillole di ottimismo, si è occupato della questione. E i dati che cita vanno nella stessa direzione di quelli riportati da Paulus e Bijker. Il virologo, in particolare, fa riferimento ai risultati di uno studio (non ancora sottoposto a peer review) condotto dall’équipe di Robert Cohen, infettivologo pediatrico all’ospedale di Créteil, relativo a 605 bambini con o senza sintomi: “In una regione fortemente colpita dall’epidemia come l’Ile de France, pochissimi bambini (1,8%) sono risultati positivi al test virologico”, scrive Cohen, ammettendo però che “il tasso di bambini che sono risultati positivi al test sierologico è risultato più alto, pari al 10,7%” e che “lo studio certamente ha dei limiti come la probabile sopravvalutazione del contagio all’interno della famiglia a causa del lockdown ben rispettato in Francia e la possibile sovrarappresentazione delle famiglie già colpite da Covid-19 più propense a consultare un medico e ad accettare di partecipare allo studio”.

Un risultato ancora più interessante è quello ottenuto da Jonas F. Ludvigsson, del Department of Medical Epidemiology and Biostatistics al Karolinska Institutet svedese, e raccontato sulle pagine della rivista Acta Pediatrica. Si tratta di una review dall’eloquente titolo “È molto improbabile che i bambini siano i driver principali della pandemia di Covid-19” (“Children are unlikely to be the main drivers of the Covid‐19 pandemic”) che ha preso in esame circa 700 articoli e lettere scientifiche, mettendone insieme e comparandone i risultati per arrivare alla conclusione che “sembra improbabile che la riapertura delle scuole e degli asili possa portare a un incremento significativo della mortalità”, pur ammettendo però che “è molto probabile che i bambini possano trasmettere Sars-Cov-2 e che anche i bambini asintomatici abbiano una carica virale”.

Un’altra questione collegata al tema della riapertura delle scuole è quella relativa all’effetto del virus sui bambini: di solito, questi sono più suscettibili degli adulti alle malattie, e si ammalano più di frequente. Per Covid-19 sembra che le cose stiano in modo diverso: guardando i dati diffusi dal governo inglese, per esempio, si nota che i casi acclarati di coronavirus tra i soggetti di età compresa tra 0 e 19 anni sono meno dell’1,6% dei casi totali, nonostante questi rappresentino il 23,4% circa della popolazione. Analogo discorso per l’Italia, dove i contagi nella stessa fascia d’età rappresentano poco più dell’1% del totale dei casi. Una review condotta da un’équipe di pediatri italiani e pubblicata sullo European Journal of Pediatrics, che ha preso in esame 62 studi per un totale di 7480 bambini, ha concluso che “Sars-Cov-2 colpisce i bambini meno gravemente che gli adulti”: tra lo 0,6 e il 2% dei bambini infetti finisce in terapia intensiva, rispetto al 15% degli over 80.

Alla luce di questi dati sembra dunque che il rischio derivante dalla riapertura delle scuole sia basso, e che possa essere ulteriormente ridotto adottando appropriate misure di sicurezza, tra cui più attenzione all’igiene delle mani e privilegiare per quanto possibile le attività all’esterno. Tenere fisicamente i bambini lontani tra loro è irrealistico, ma si può comunque cercare di mantenere una certa distanza tra adulti e bambini. Riaprire le scuole si può; abbassare la guardia non ancora.

Via: Wired.it

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Credits immagine di copertina: Kimberly Farmer on Unsplash

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