Elettrodi contro il Parkinson

Controllare i movimenti del proprio corpo, per chi soffre di Parkinson, è una battaglia quotidiana. Rigidità e tremori accompagnano ogni gesto, l’equilibrio diventa precario e con il decorso della malattia anche respirare può richiedere sforzo. Mentre la ricerca scientifica cerca di svelare il meccanismo dietro la patologia, con l’obiettivo di combatterla alla radice, la medicina offre diverse soluzioni per ridurre i sintomi e migliorare la qualità della vita: accanto alle terapie della farmacologiche diventa oggi sempre più diffuso l’uso Stimolazione Cerebrale Profonda, o DBS, dall’inglese Deep Brain Stimulation.

La tecnica consiste nello stimolare, tramite impulsi elettrici, una zona profonda del cervello il cui cattivo funzionamento causa i sintomi motori della malattia: il nucleo subtalamico. Due elettrodi vengono posizionati in quest’area durante un’operazione chirurgica svolta in anestesia locale. “Avere il paziente sveglio permette al chirurgo di capire qual è la migliore posizione degli elettrodi, quella che riduce al minimo i sintomi del Parkinson senza produrre fastidiosi effetti collaterali”, spiega Domenico Servello, responsabile del reparto di Neurochirurgia dell’Istituto Galeazzi di Milano. I fili collegati agli elettrodi vengono poi fatti scendere lungo il collo sottopelle, fino a una zona del torace dove viene istallato un dispositivo di piccole dimensioni, simile a un pacemaker, che genera gli impulsi elettrici.

“È come se questi impulsi coprissero il segnale prodotto dal cervello con del rumore di fondo”, racconta Alberto Albanese, coordinatore dell’Area Neurologica dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. Un segnale che per chi soffre di Parkinson è alterato dalla malattia. “La DBS funziona perché disturba una comunicazione sbagliata”.

In Italia ci sono più di 200mila persone affette da Parkinson, di queste solo 2.500 hanno un impianto per la DBS. La terapia, che ha ormai quasi trent’anni di vita e che permette di ridurre i sintomi della malattia e quindi il dosaggio dei farmaci fino al 70%, rimane una scelta delicata, non adatta a tutti i pazienti. Non solo perché comporta un’operazione chirurgica invasiva, ma anche perché non tutte le tipologie di Parkinson rispondono allo stesso modo. “La selezione del paziente è fondamentale se si vogliono avere i risultati migliori. L’età, la risposta ai farmaci, la zona del corpo che risente maggiormente della malattia, il busto o gli arti: sono tutti aspetti che vanno valutati attentamente”, osserva ancora Albanese. Per questo è importante che questa selezione venga fatta da un team. “Non basta il singolo parere di un neurochirurgo o di un neurologo. La cosa migliore è avere un’equipe unita e multidisciplinare. Non solo, ma il paziente va anche seguito dal punto di vista psicologico, prima, durante e dopo l’operazione”. A fronte di un successo terapico universalmente riconosciuto, la DBS comporta infatti anche vari rischi, legati sia all’operazione chirurgica sia agli effetti collaterali sull’umore e le capacità cognitive che possono essere causati dagli impulsi elettrici stessi.

Mentre la ricerca medica continua e le indicazioni della DBS si allargano ad altri disturbi motori e psichiatrici – come la distonia, il tremore essenziale e il disturbo ossessivo compulsivo – il progresso tecnologico degli impianti diventa fondamentale. Un bell’esempio di questo progresso è la compatibilità, appena riconosciuta dall’Unione Europea, di alcuni dispositivi (Activa di Medtronic) con la risonanza magnetica integrale. Fino a oggi, chi si curava con la DBS doveva rinunciare a questo esame, fondamentale non solo per la diagnosi di altre malattie nel corso della vita, ma anche per controllare il risultato dell’operazione stessa di impianto della DBS. La compatibilità con la risonanza magnetica è un importante passo in avanti, che faciliterà l’avvicinamento dei pazienti a questa scelta terapeutica.

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