È di ideazione italo-canadese la nuova fionda molecolare che promette di rendere la diagnosi e la terapia di molte malattie più veloce e mirata. Nello studio, pubblicato questa settimana su Nature Communications, i ricercatori descrivono per la prima volta una nanomacchina 20’000 volte più piccola di un capello umano, capace di trasportare carichi molecolari e rilasciarli dopo essere entrata in contatto con specifici anticorpi. La nanomacchina è composta di DNA, una sostanza biocompatibile e sempre più facile da sintetizzare in laboratorio, che nella fionda svolge la funzione di elastico. Alle due estremità del frammento di DNA sono attaccate molecole in grado di riconoscere anticorpi specifici, provocando un cambiamento della forma della fionda che “scatta” e rilascia il suo cargo. Abbiamo chiesto a Francesco Ricci, professore di Chimica Analitica all’Università di Roma, Tor Vergata e autore dello studio, di raccontarci quali saranno le possibili applicazioni di questa invenzione.
Professor Ricci, qual è l’aspetto più innovativo della vostra scoperta?
“La nostra nanomacchina non è la prima ad essere basata sull’utilizzo di un filamento di DNA capace di trasportare un carico, ma fino ad ora il rilascio avveniva in seguito a un numero molto limitato di stimoli, come il pH, la temperatura o l’interazione con altri frammenti di DNA. La nostra nanomacchina invece libera il proprio carico in risposta all’interazione con anticorpi, molecole importanti nella diagnosi e nella terapia. Molte malattie – anche se non proprio tutte, purtroppo – portano alla produzione di specifici tipi di anticorpi che vengono riconosciuti in modo univoco dalla nostra nanomacchina. In questo modo, la macchina potrebbe per esempio emettere un segnale rilevabile dagli operatori se nel sangue di un paziente fosse presente un particolare anticorpo segnale di malattia. Oppure, potrebbe servire per trasportare un farmaco fino al punto in cui è necessario e rilasciarlo sono nel caso in cui siano presenti i marker della malattia”.
Quali tipi di carichi molecolari possono essere trasportati?
“Nell’articolo descriviamo carichi di DNA associati a molecole fluorescenti che potrebbero essere utilizzati in diagnostica. Quando la macchina incontra un anticorpo che è segnale di una malattia, il carico viene rilasciato ed emette un segnale fluorescente che si può rilevare in laboratorio. Ma possiamo pensare di utilizzare carichi di natura diversa, come molecole chiamate siRNA capaci di silenziare l’espressione di geni responsabili di molte patologie. Oppure, il carico potrebbe essere un fattore di trascrizione, cioè una proteina che è capace di interferire con l’espressione genica. O ancora, le nanomacchine potrebbero trasportare proteine o farmaci come la doxorubicina. Come abbiamo spiegato in un articolo pubblicato per la rivista Chemical Sciences questo farmaco antitumorale può essere rilasciato in maniera smart solo dove serve”.
Per quali malattie potrebbe essere utile la vostra invenzione?
“Nell’articolo abbiamo dimostrato che la nostra nanomacchina si attiva in risposta ad almeno quattro tipi di anticorpi diversi. Uno di questi è di grande rilevanza clinica perché è l’anticorpo che si usa nella diagnosi di HIV. Stiamo già testando il nostro sistema per la diagnosi di malattie immunologiche come la celiachia. In ambito terapeutico, la nanomacchina a base di DNA potrebbe funzionare da vettore per farmaci contro il diabete e contro i tumori”.
Quali sono i limiti di questo sistema?
“Il limite sta nella progettazione di un filamento di DNA che sia in grado di interagire con il suo carico in maniera abbastanza forte da impedire che questo si distacchi quando non è necessario. Allo stesso tempo il legame tra la macchina e il suo carico deve essere reversibile, perché il rilascio deve avvenire non appena c’è contatto con l’anticorpo target”.
Quali sono i prossimi passi della vostra ricerca?
“Vogliamo testare il nostro sistema con una varietà di anticorpi e carichi diversi, per renderlo uno strumento valido nella diagnosi e nel trattamento di molte malattie. Per ora ne abbiamo verificato la funzionalità in vitro, anche in soluzioni che simulano l’ambiente che le nanomacchine incontrerebbero nel sangue di un paziente, ma è di fondamentale importanza proseguire i nostri studi per verificare come rispondono quando vengono applicate alle cellule, e più avanti a un intero organismo. C’è ancora un lungo percorso di ottimizzazione da portare a termine, e realisticamente dovremo attendere almeno 5 o 10 anni priva di vedere le nanomacchine molecolari sul mercato”.
Riferimenti: Nature Communications