Quando sentiamo parlare di ambienti e animali minacciati dal riscaldamento climatico siamo portati a pensare che la cosa riguardi luoghi lontani, non la nostra terra. In realtà, i cambiamenti climatici riguardano tutti da vicino e le loro conseguenze sono visibili anche in Italia. Minacciando da vicino un animale simbolo delle nostre montagne: lo stambecco alpino, la cui popolazione si è dimezzata negli ultimi vent’anni. L’allarme arriva da uno studio dell’Università di Sassari pubblicato su Scientific Reports, che individua nell’aumento delle temperature una minaccia alla sopravvivenza di questo animale, il cui areale rischia di dimezzarsi nei prossimi anni. Per capire cosa sta succedendo a questi animali d’alta quota abbiamo parlato con l’autrice dello studio, la biologa Francesca Brivio.
Dottoressa Bivio, in che modo l’aumento delle temperature mette a rischio la sopravvivenza dello stambecco?
“Lo stambecco alpino è molto sensibile alle alte temperature. Si è adattato alle condizioni ambientali estreme delle Alpi, dove la stagione critica è l’inverno. Grazie a una serie di adattamenti che riducono fortemente la dissipazione del calore corporeo, questa specie è perfettamente in grado di far fronte alla rigidità delle temperature invernali. Al contrario, non tollera climi caldi. Lo stambecco ha un corpo tozzo e compatto, un pelo scuro e molto isolante ed è in grado di accumulare uno spesso strato di grasso corporeo. Se a questo si aggiunge il fatto che non ha ghiandole sudoripare, si capisce come fisiologicamente lo stambecco abbia difficoltà ad affrontare i rialzi di temperatura”.
Lo stambecco è un animale simbolo della conservazione della natura: alla necessità salvaguardarlo si deve l’istituzione nel 1922 del primo Parco Nazionale in Italia, il Gran Paradiso. Oggi ha ancora bisogno della nostra proezione?
“La popolazione di stambecco del Gran Paradiso è in declino. Dall’istituzione della riserva reale di caccia, nel 1856, grazie appunto alle leggi di tutela, la popolazione era andata progressivamente aumentando all’interno del Parco e in generale sulle Alpi, anche grazie a diversi progetti di reintroduzione. A partire dal 1993, però, la popolazione del Gran Paradiso ha avuto un trend negativo: e oggi si è pressoché dimezzata. Questo è sicuramente un campanello di allarme”.
Il riscaldamento globale è tra i responsabili di questo declino?
“Ancora non lo sappiamo con certezza, sono in corso degli studi. Secondo una prima ipotesi sembra che sia in corso una sorta di sfasatura fra il ciclo riproduttivo e la stagionalità dell’ambiente alpino. Durante il periodo di svezzamento e allattamento dei piccoli, tra giugno e luglio, le femmine hanno un’elevata richiesta energetica che possono soddisfare se l’ambiente fornisce alimenti di alta qualità: erba fresca, verde, molto ricca di proteine e povera di fibre. Quello che sembra stia succedendo è che, accelerando lo scioglimento delle nevi, il riscaldamento ambientale abbia anticipato la primavera, riducendone anche la durata. Con l’accorciamento del periodo in cui l’erba è verde e nutriente, le femmine si trovano a dover allattare i piccoli quando i pascoli delle Alpi si trovano già in una fase di invecchiamento e quindi l’erba è ricca di fibre e povera di proteine. E avendo a disposizione cibo di minore qualità, anche il latte diventa meno sostanzioso riducendo le possibilità di sopravvivenza dei nuovi nati”.
Nella vostra ricerca suggerisce che a causa dell’aumento delle temperature, gli stambecchi tendano a spostarsi a quote più elevate, restringendo sempre più l’area che occupano. Questo spostamento influirebbe anche sulla qualità dell’alimentazione?
“Sì. Quello che si è visto anche negli studi precedenti è che lo stambecco regola la propria temperatura corporea attraverso il comportamento, adottando quella che si definisce termoregolazione comportamentale. Come abbiamo detto lo stambecco è bene adattato al freddo, ma non tollera le alte temperature, per questo cerca sempre il migliore compromesso per evitare il surriscaldamento e allo stesso tempo reperire l’erba più nutriente. Il problema è che, nell’ambiente in cui vive, le aree che offrono risorse alimentari di alta qualità sono separate da quelle che forniscono un riparo dalle alte temperature. Quindi quando le temperature sono molto elevate lo stambecco ha meno possibilità di reperire le sostanze energetiche necessarie per la propria crescita e il proprio sostentamento. Per ripararsi dal caldo scelgono le aree più fresche, ma qui la qualità del pascolo è molto bassa. Se il riscaldamento globale non si fermerà e le nostre previsioni si riveleranno esatte, oltre alla sopravvivenza dei piccoli anche quella degli individui adulti si ridurrà”.
Quali previsioni sul futuro di questa specie?
“Le previsioni per lo stambecco non sono molto ottimistiche. I nostri modelli dicono che, se le attività umane che causano il riscaldamento globale rimarranno stabili, nel giro di 90 anni, verso il 2100, l’estensione delle aree utilizzate dallo stambecco sarebbe meno della metà di quella attuale. In uno scenario più pessimistico, con un ulteriore incremento delle attività responsabili del riscaldamento globale, la previsione è che in 90 anni gli stambecchi saranno presenti solo in un terzo dell’areale attuale”.
Si può fare qualcosa per ridurre l’impatto del riscaldamento globale su queste specie?
“A livello locale una soluzione potrebbe essere ridurre il disturbo in quelle aree che si prevede verranno occupate dallo stambecco. Le attività umane provocano allarme e stress negli animali selvatici. E uno stambecco messo sotto stress reagisce spostandosi verso le pareti rocciose dove, al contrario dei suoi i predatori, si muove molto agilmente e quindi si sente più al sicuro. Ma vicino alle pareti, come abbiamo visto, l’erba è poca, è rada e spesso di qualità nutritiva bassa. Quindi allo stress si aggiunge il fatto che non riescono a nutrirsi a sufficienza, compromettendo l’introito energetico totale della giornata. Lo ha dimostrato chiaramente uno studio pubblicato nel 2018 su Mammalian biology: gli stambecchi reagiscono al passaggio degli elicotteri fuggendo verso le zone di rifugio, e in seguito riducono le loro attività per tutto il giorno, e questo compromette il loro introito energetico perché mangiano di meno di quanto farebbero se non disturbati. Solo il giorno seguente gli animali riprendono le loro normali attività”.
Riferimenti: Scientific Reports
Credit Immagine: Alberto Peracchio/Wikipedia
Articolo prodotto in collaborazione con il Master SGP di Sapienza Università di Roma