HIV: come il virus è diventato un farmaco di precisione

HIV

1981. Dagli Stati Uniti giungono in Italia delle segnalazioni a proposito di alcuni casi inspiegabili di polmoniti e tumori rari in giovani omosessuali. La causa dell’epidemia è sconosciuta e non c’è ancora alcuna evidenza di contagio: insieme alla divulgatrice Annamaria Zaccheddu, Alessandro Aiuti, vice Direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano, comincia da qui a raccontare come suo padre, il noto immunologo Fernando Aiuti, abbia iniziato la sua lunga lotta contro l’AIDS, sviluppando fondamentali conoscenze sul virus HIV. I primi casi in Italia vengono rilevati più o meno nello stesso periodo, l’assenza degli enti pubblici è totale mentre i media si affrettano a stigmatizzare i comportamenti di omosessuali e tossicodipendenti ritenuti responsabili della malattia. In questa situazione, il 26 luglio 1985 Fernando Aiuti fondò l’ANLAIDS, la prima associazione dedicata ai pazienti con AIDS che, oltre all’informazione e all’educazione a stili di vita corretti, sviluppava iniziative mirate alla diagnosi, alla prevenzione e alla terapia della “nuova” malattia. La famiglia collabora. “Casa nostra era piena di opuscoli informativi e, naturalmente, di preservativi, da distribuire per strada o a scuola, pur sapendo che si poteva fare ben poco dopo che il virus aveva contagiato”.

Il primo farmaco anti AIDS

Nel 1986, il centro del Policlinico Umberto I di Roma diretto da Aiuti fu il primo in Europa a essere coinvolto nella sperimentazione del primo farmaco poi approvato per la cura dell’infezione da HIV, l’azidotimidina o AZT. Le difficoltà non mancavano: l’effetto dell’AZT durava al massimo sei mesi, poi, a causa della grande capacità di mutare il proprio genoma, il virus spesso diventava resistente e il farmaco non era più in grado di bloccarne la replicazione. Inoltre i pazienti andavano spesso incontro a pesanti effetti collaterali, tra cui l’anemia dovuta alla tossicità sul midollo osseo. Le sperimentazioni in America erano dirette da Antony Fauci, che venne rapidamente identificato come il responsabile di questi dolorosi insuccessi anche per la sua forte presenza mediatica. Colleghi, istituzioni e pazienti promuovevano dimostrazioni contro di lui, ed è interessante notare come, a distanza di quasi cinquant’anni, ancora i così detti negazionisti ritengono Fauci responsabile della diffusione della recente epidemia virale dovuta al SARS-CoV2. L’ANLAIDS riceve sostegno e fondi sia da personaggi pubblici, da Madre Teresa a Renato Zero a Mino Damato, promuovendo con questi contributi la ricerca e lo sviluppo delle fondamentali terapie. Dopo anni di sperimentazioni sono stati finalmente messi a punto e approvati per la cura dell’AIDS una trentina di farmaci antiretrovirali, che si possono combinare diversamente a seconda della risposta del paziente e che oggi rendono la malattia almeno non mortale.

Sfruttare l’HIV

L’impegno del padre nella lotta all’AIDS accompagna la giovinezza di Alessandro Aiuti che, seguendone le attività  scientifiche e terapeutiche, comincia la sua formazione professionale. Infatti la ricerca scientifica, in Italia ma soprattutto in America fa, intanto, passi da gigante; cominciano gli studi e le sperimentazioni non solo sulle infezioni virali ma soprattutto sull’ancora poco conosciuto DNA e sulla complessità del genoma. Già dal 1972 si cominciava a proporre concretamente l’idea di una terapia nell’uomo, utilizzando virus che portassero nelle cellule geni sani sostituendo quelli difettosi, e se ne intuivano grandi potenzialità anche se  non si avevano ancora prove sperimentali di un suo effettivo funzionamento. Nel 1996, in seguito alle ricerche di Lederberg (che per questo aveva meritato il Nobel) sulla rivista Science comparve un articolo in cui si metteva in luce la possibilità di sfruttare il virus HIV come farmaco di precisione, capace di inserire nelle cellule geni “buoni” e modificare così in modo stabile il DNA non funzionale. Non più capace di replicarsi ma solo di infettare le cellule bersaglio, l’HIV poteva così essere trasformato in un utile vettore di materiale genetico; ma i primi tentativi terapeutici sull’uomo si rivelarono fallimentari.  

Una carriera lontano dal padre

Dopo la laurea in medicina a Roma e periodi di formazione e di studio all’estero, Alessandro Aiuti sviluppa le proprie competenze di ricerca, e nel 1996 inizia a lavorare all’istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget), e racconta: “Seppure inconsciamente, sentivo che quello era il momento di costruirmi una carriera indipendente, lontano dalla figura ingombrante di mio padre. Mai avrei pensato, però, che le nostre strade si sarebbero poi incrociate professionalmente, portandomi a studiare l’HIV da un altro punto di vista”.

Gli studi sulla SCID

Intanto negli Stati Uniti si prova a sperimentare la terapia genica nella cura di una malattia genetica, l’ADA-SCID, una rara forma di immunodeficienza dovuta alla mancanza di un enzima chiamato «adenosina deaminasi». Gli studi sulle SCID (Severe Combined Immuno Deficiency) sono ancora all’inizio, si pensa che queste patologie siano causate da difetti in alcuni geni che controllano il sistema immunitario ma molte sono ancora le domande senza risposta sui linfociti, sul loro funzionamento e sulla produzione di anticorpi. Tuttavia i primi risultati delle terapie non sono incoraggianti.

Curare i bambini

Al San Raffaele si cominciano a sperimentare le modalità con cui, grazie alle nuove tecnologie del DNA ricombinante, i retrovirus possano trasferire, nelle cellule staminali con geni non funzionanti, la versione modificata di questi geni, lasciando che poi le staminali si moltiplichino e si differenzino. Alessandro Aiuti racconta il coinvolgimento terapeutico ed emotivo del suo staff quando, correggendo i linfociti di bambini malati, si vedeva come questi potevano finalmente crescere e avere una vita quasi normale. Lo sviluppo delle tecniche più efficaci, e la sperimentazione di specifiche modalità di intervento, si accompagna alle storie dei tanti pazienti, prevalentemente bambini, salvati in tempo dalla terapia genica: Tasmin, Salsabil, bambini venezuelani, colombiani, arabi, belgi; sono tanti i nomi dei piccoli che hanno potuto ricominciare a vivere.

Successi e insuccessi vengono raccontati come testimonianza del lavoro svolto e Alessandro Aiuti spiega con competenza il tipo di trattamento e le modalità con cui si realizzava nei pazienti la somministrazione dei geni “corretti” e lo sviluppo delle cellule staminali. Il rischio intrinseco alla metodologia è che i vettori modificati non inseriscano il gene nel punto preciso del DNA cellulare da correggere, e sono pertanto necessari controlli e adattamenti della terapia. Per ottenere risultati positivi, e diminuire le possibilità di insuccesso, bisogna che il trapianto genico avvenga in tempi moto precoci e che le cellule staminali possano moltiplicarsi nell’organismo, evitando i ritardi dovuti agli impicci burocratici o a leggi inadeguate. Da questo punto di vista, lo screening neonatale delle malattie rare può dare la possibilità di intervenire in tempi molto brevi.

La prima terapia genica ex-vivo

Già dal 1996 Luigi Naldini, nel suo lungo perfezionamento statunitense, aveva sviluppato fondamentali ricerche sulla terapia genica ed era poi diventato il responsabile del Progetto vettori lentivirali nell’azienda Cell Genesys. Nominato direttore di SR-Tiget al San Raffaele Telethon di Milano, Naldini inizia a sperimentare, insieme con Alessandro Aiuti, un nuovo vettore nella terapia genica: proprio il “pericolosissimo” virus HIV, reso inoffensivo da opportune manipolazioni ma molto efficace per la sua capacità di infettare le cellule e trasferire DNA. I risultati sono positivi, gli interventi terapeutici diventano sempre più sicuri ed efficaci. Grazie alla collaborazione tra la Fondazione Telethon e l’Ospedale San Raffaele con la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline, si riesce a realizzare la prima terapia genica ex vivo al mondo, prelevando cellule dal paziente, correggendole in vitro e poi reimmettendole nel paziente. Si è ricostituito così un sistema immunitario funzionante in un bambino malato di ADA-SCID e il 30 maggio 2016, per la prima volta, una terapia genica ex vivo – Strimvelis – veniva approvata a livello europeo e considerata farmaco a tutti gli effetti, disponibile in tutta l’Unione europea. Per la ricerca questa è stata una data storica. Al San Raffaele si sperimenta anche la  terapia genica in vivo, somministrando direttamente nell’organismo o in uno specifico organo, persino nel cervello, il virus portatore del gene corretto. 

Trattamenti costosi

Il futuro della ricerca è molto promettente e risultati terapeutici sono importanti: si riescono infatti a curare malattie genetiche molto o poco diffuse, come la talassemia, l’emofilia, la leucodistrofia metacromatica, la WAS (Sindrome Wiskott-Aldrich). Ogni terapia, però, deve essere studiata e programmata per il singolo paziente e questo rende i costi dei trattamenti molto elevati. Servirebbe avere alle spalle la potenza d industrie farmaceutiche coinvolte nella ricerca e nella produzione delle molecole necessarie, ma le aziende sembrano poco interessare a sviluppare ricerca per le malattie rare.  Si fanno passi avanti anche nel campo dei tumori: i CAR-T, cioè i linfociti T CD8, vengono modificati geneticamente con un vettore virale, insegnando loro a riconoscere ed eliminare in modo selettivo le cellule tumorali. Negli ultimi anni alla terapia genica «tradizionale» si è affiancata la tecnologia dell’editing genetico che permette di intervenire direttamente sul DNA correggendone gli errori in modo preciso e senza introdurre geni esterni. Anche in questo campo, probabilmente, nuove tecnologie continueranno a sostituire quelle esistenti, dopo anni e anni di sperimentazioni e ricerche, successi e insuccessi. L’ingegneria genetica interviene anche altri settori e, per esempio, molti derivati dal sangue necessari per le trasfusioni possono essere rigorosamente controllati limitando le possibilità di trasmettere malattie virali ai pazienti, come succedeva nei primi tempi dell’AIDS.

Il ruolo dell’informazione

Il libro di Aiuti si conclude con una breve riflessione sui costi delle terapie, sulla necessità di trovare versioni low-cost alla portata dei malati meno abbienti, sulla necessità di reperire finanziamenti per la ricerca. Nell’ultimo capitolo del libro, dopo aver esplorato le nuove potenzialità del virus HIV, così pericoloso ai tempi di suo padre e causa della diffusione dell’AIDS, Alessandro Aiuti ricorda ancora l’ANLAIDS e il suo compito di informazione. Anche se non si tratta più di una malattia mortale, anche se molti giovani la sfidano consapevolmente, sarebbe necessario continuare la ricerca su farmaci più efficaci ma anche, soprattutto, servirebbe una continua informazione sui rischi che si possono correre e sui comportamenti che invece non sono pericolosi, dal momento che una consapevole precauzione può rendere più sereni gli affetti, gli amori e le convivenze.

Foto di Ehimetalor Akhere Unuabona su Unsplash